La nuova versione digitale in 4K realizzata a partire dal negativo camera originale promette di riportarci Manhattan, oltre che su grande schermo, anche nello splendore originale del suo malinconico inno a New York. Proponiamo qui un’antologia critica del capolavoro di Woody Allen.
Manhattan di Woody Allen si è materializzato dal vuoto come l’unico film americano veramente grande degli anni Settanta. […] Come girandola dei sessi, ha lo stesso respiro di precedenti capolavori quali Madame de… di Max Ophuls, La regola del gioco di Jean Renoir, Sorrisi di una notte d’estate di Ingmar Bergman, Lady Eva e Ritrovarsi di Preston Sturges. Aggiungo di sfuggita che lo splendore di Manhattan è stato per me una sorpresa assoluta. […] Nella mia carriera di critico, Manhattan è paragonabile a epifanie come Viridiana di Luis Buñuel nel 1962, A Hard Day’s Night di Richard Lester e dei Beatles nel 1964, La mia notte con Maud di Eric Rohmer nel 1970. (Andrew Sarris, “The Village Voice”, 30 aprile 1979).
Se Isaac Davis è il personaggio maschile più pienamente riuscito di Allen, Manhattan è finora il suo film più commovente e coinvolgente. […] Oltre a essere il regista e il co-autore, con Marshall Brickman, del film, Allen è anche la sua presenza più importante. Fornisce a Manhattan un punto di riferimento proprio come dieci anni fa, quando il personaggio che interpretava si chiamava Virgil Starkwell, in Prendi i soldi e scappa. Ma come sono cresciuti, Virgil e Woody! […] La sostanza di Manhattan non è ciò che accade ma come accade. Il film è ricco di momenti straordinariamente divertenti e di altri che talvolta sconvolgono per come sanno evocare la desolazione civilizzata. […] Sospetto che ci sarà molto da aggiungere in futuro su Manhattan. Il cammino di Allen per diventare uno dei nostri più importanti autori cinematografici procede così rapidamente, che noi che lo guardiamo dobbiamo fermarci ogni tanto per riprendere fiato
(Vincent Canby, “The New York Times”, 25 aprile 1979)
Woody Allen ha capito che poteva circoscrivere il campo della sua finzione a un’unità molecolare, prendendo sé e altri personaggi come altrettanti nuclei in seno a una cellula costituita dal loro ambiente sociale, e contenuta dentro un organismo geospaziale più vasto, la città di Manhattan. Questa organizzazione, minimale ma rigorosa, con le proprie leggi, i propri valori, […] partendo dall’infinitamente piccolo raggiunge l’universale poiché regola, a ben vedere, quei milioni di animali cittadini che siamo, al di là di ogni particolarismo nazionale, nelle grandi metropoli moderne. […] Ma […] non si tratta solamente di un ritratto sociologico in più, o dell’ironica istantanea di un’America che ha perduto tutte le sue certezze. È tutto questo organizzato a partire da un modello drammaturgico che non è quello del vaudeville (malgrado l’apparenza di un intrigo di coppie borghesi), ma è piuttosto quello della tragedia. Vale a dire, un’azione semplice, ridotta all’osso, che descrive una crisi passionale nella quale gli eventi esterni hanno importanza solo nella misura in cui se ne vedono le ripercussioni nell’animo dei personaggi. In Manhattan, tra l’altro, ritroviamo la catena delle passioni raciniane: Tracy ama Isaac, che ama Mary, che ama Yale, che ama Emily. E la tragedia non è tanto che Mary abbandoni Isaac per andarsene con Yale che abbandona Emily, né che Tracy se ne vada nel momento in cui Isaac avrebbe tanto bisogno di lei: il tragico risiede in questa corsa ridicola dei desideri, che mette in luce l’incapacità esistenziale degli individui.
(Danièle Dubroux, “Cahiers du Cinéma”, n. 307, gennaio 1980)
Ciò che colpisce anzitutto nel film è il carattere di apparente disinvoltura, l’assenza di racconto chiaramente strutturato, il susseguirsi di annotazioni sulla gente, sui luoghi: questa costruzione a mosaico rivela poco a poco la sua necessità profonda. Per tocchi successivi, Woody Allen ci consegna uno dei ritratti più incisivi della civiltà americana, o quanto meno di quel gruppo di individui che ne sottolineano le contraddizioni, gli intellettuali newyorkesi. […] Così, al di là delle incertezze che caratterizzano ogni attività creativa, Woody Allen diviene con Manhattan un ‘autore’ nel pieno senso della parola.
(Jean A. Gili, Manhattan, “La Revue du Cinéma”, n. 346, gennaio 1980)
Woody fornisce una ‘summa’ di se stesso, del suo modo di concepire il cinema e la vita che non potrebbe essere più esauriente. La sua New York è, in qualche modo, la stessa città splendida e incoraggiante delle commedie sofisticate e dei ‘musical’ degli anni Quaranta/Cinquanta: non a caso una splendida selezione delle musiche di Gershwin affidate a ben due orchestre sinfoniche fa risuonare nella colonna sonora alcuni dei miti sentimentali del sogno americano […] mentre un altro grande grimaldello di sogni – appunto il bianco e nero già ricordato: ovvero il ritorno al cinema ‘vero’, a quello pessimistico/ottimistico di un’altra America, di un ben diverso passato – consente a Woody di far ruotare le sue sofisticate pedine […] con la stessa precisione dolorosa e parodistica al tempo stesso che si ritrova in alcuni dei suoi migliori ‘pastiches’ letterari.
(Claudio G. Fava, “La Rivista del Cinematografo”, n. 12, dicembre 1979)
In Manhattan, giunto alla piena maturità, Woody Allen riversa l’intera sua filosofia dell’esistenza: uno ‘spleen’ metropolitano passato alla scuola di Flaubert (quell’ambiguo rapporto fra Isaac e Yale viene dall’Educazione sentimentale), la confessione che si effonde nell’umorismo come nei migliori scrittori d’analisi, il film che diventa autoritratto finemente denigratorio. Tutto in un ‘glorious black and white’ con un senso dello stile reso più consapevole dall’esperienza di Interiors, offerto ai futuri studiosi del crollo dell’impero americano. Per far vedere com’era dolceamara la vita prima della rivoluzione.
(Tullio Kezich, “Panorama”, 12 novembre 1979)
Citazioni tratte da: Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Lindau, Torino 1996