Mank è un film bergsoniano. Non lo è solo nella misura in cui la narrazione frammentata funge da valore testimoniale, quanto anche perché crea all’interno della durée un percorso generazionale che collega la scrittura di Jack Fincher alla regia del figlio David. Padre e figlio si confrontano a distanza di molti anni – lo script di Jack risale agli anni Novanta, il lavoro di David ne è un corollario sentimentale rivitalizzato dalle immagini in bianco e nero – per restituire una traccia durevole di ciò che è stato e di ciò che è diventato il cinema in tutti questi anni, a partire dalla babele hollywoodiana anni ’30 raccontata nel film e finendo con l’attestare la riabilitazione della piattaforma streaming come dispositivo per il quale può essere pensato un lavoro d’autore.
Per molti aspetti Mank è un’opera in serie, nel senso che continua a moltiplicare l’icona wellesiana su Netflix dopo The Other Side of the Wind e Mi ameranno quando sarò morto, rafforzando di conseguenza il sistema produttivo e distributivo di una piattaforma sempre più autoriale; questo nuovo racconto sullo star system mostra la superficie ovattata e conflittuale di una Hollywood fallocentrica e prova a spiegarci la nascita della sceneggiatura di Quarto potere senza però creare quegli affondi registici che hanno connotato in passato le letture ben più stratificate e profonde di Fincher. Mank è una piacevole divagazione poetica in bianco e nero, un biopic di pregevole fattura calato mimeticamente negli anni della Golden Age hollywoodiana, riportata in vita con suggestivi effetti sonori e scenografici d’epoca.
Al di là del chirurgico tecnicismo del cineasta, l’opera sembra soprattutto un laboratorio di “buona oralità” in cui, citando l’esergo de La cattiva reputazione del professor Fabrizio Frasnedi, “il garbo di una frase diventa il suo insostituibile sapore; e tale sapore non è che il suo ritmo”: liaison sentimentale e corrispondenza d’amorosi sensi tra un padre scrittore e un figlio regista, modulata sulla recitazione impeccabile di Gary Oldman nei panni di J. L. Mankiewicz e sui baldanzosi dialoghi che si rincorrono al ritmo di una screwball comedy. Un tappeto di parole attraverso cui Mank, sceneggiatore al servizio del capo della MGM Mayer e frequentatore assiduo del magnate W.R. Hearst, scandisce il ritmo del film e ne detta partiture e modulazioni, imbastendo stravaganti variazioni sul tema. Ripercorrendo attraverso gli studiati flashback la propria storia personale, Mankiewicz diventa l’eroe eponimo del mito fincheriano, tramandato dal lavoro di ricerca della critica cinematografica Pauline Kael.
Lo sceneggiatore alcolizzato penetra così nel tempo storico in cui sono calati gli eventi culturali e politici e diventa testimone unico di una memoria viva, deleuziana, che riconnette passato e presente senza alcuna pretesa di verità assoluta. È un film di Mankiewicz, più che su Mankiewicz, che sguazza nel “garbuglio” esistenziale – tanto per citare il nostro Carlo Emilio Gadda – perdendo per strada la questione principale sulla quale molti hanno disquisito per decretare il reale valore dell’opera di Fincher: chi ha scritto realmente Quarto potere? Chiunque si approcci alla visione di Mank con l’idea che esso possa essere solo un biopic sullo sceneggiatore del capolavoro di Orson Welles Citizen Kane non comprenderà appieno l’operazione nostalgica realizzata da David Fincher, abile a sfruttare l’idea paterna per raccontare una storia di famiglia accalappia-oscar, ricostruendo il sontuoso scenario polifonico di Hollywood e raccontandone i conflitti politici, i rapporti tossici tra gli intellettuali emarginati, le attrici succubi e i tycoon arrivisti.
Un film autoreferenziale, dunque, che traveste di verosimiglianza la natura mistificatoria di un mito senza tempo.