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“Mank” film bergsoniano

Per molti aspetti Mank è un’opera in serie, nel senso che continua a moltiplicare l’icona wellesiana su Netflix dopo The Other Side of the Wind e Mi ameranno quando sarò morto, rafforzando di conseguenza il sistema produttivo e distributivo di una piattaforma sempre più autoriale; questo nuovo racconto sullo star system mostra la superficie ovattata e conflittuale di una Hollywood fallocentrica e prova a spiegarci la nascita della sceneggiatura di Quarto potere senza però creare quegli affondi registici che hanno connotato in passato le letture ben più stratificate e profonde di Fincher. Mank è una piacevole divagazione poetica in bianco e nero, un biopic di pregevole fattura calato mimeticamente negli anni della Golden Age hollywoodiana, riportata in vita con suggestivi effetti sonori e scenografici d’epoca.

“Mank” tra scrittura e tradimento

La stesura del famoso copione diventa un’occasione per procedere a ritroso nel tempo nella vita dello sceneggiatore, alla ricerca dei motivi che portarono Mankiewicz a scrivere un film sul magnate americano William Randolph Hearst. Ma l’intento di Fincher è tutt’altro che biografico. “Come dice lo scrittore – ricorda Houseman allo sceneggiatore durante una delle tante visite per controllare l’avanzamento dei lavori – racconta la storia che conosci”. “Io – risponde Mankiewicz – non conosco quello scrittore”. Eppure il regista sembra volerci avvertire fin dall’inizio come – sia nella storia raccontata da Mankiewicz sia in quella che lo stesso regista sta raccontando – i confini tra realtà e finzione possano a tratti sfumare l’uno nell’altro.