In una delle primissime scene di Mank di David Fincher, il protagonista, lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, arriva in un ranch californiano accompagnato da John Houseman, storico amico e socio di Orson Welles. Siamo nel 1940, a Victorville, California, dove - lontano dalle distrazioni di Hollywood e soprattutto dall’alcool - Mankiewicz, fermo a letto con una gamba ingessata, darà vita, in soli sessanta giorni, allo script di quello che diventerà uno dei film più famosi della storia del cinema: Quarto potere.

È da qui che parte Fincher, dalla scrittura e dai suoi fantasmi. La stesura del famoso copione diventa infatti un’occasione per procedere a ritroso nel tempo nella vita dello sceneggiatore, alla ricerca dei motivi che portarono Mankiewicz a scrivere un film sul magnate americano William Randolph Hearst. Ma l’intento di Fincher è tutt’altro che biografico. “Come dice lo scrittore - ricorda Houseman allo sceneggiatore durante una delle tante visite per controllare l’avanzamento dei lavori - racconta la storia che conosci”. “Io - risponde Mankiewicz - non conosco quello scrittore”. Noi invece, a posteriori, sappiamo che in quei sessanta giorni in realtà Mankiewicz scrisse una storia che ben conosceva di persona, cioè quella ispirata a Hearst. Eppure il regista sembra volerci avvertire fin dall’inizio come - sia nella storia raccontata da Mankiewicz sia in quella che lo stesso regista sta raccontando - i confini tra realtà e finzione possano a tratti sfumare l’uno nell’altro.

Lasciando a margine le annose polemiche della critica sulla paternità della sceneggiatura di Quarto potere - a partire da quelle contenute nel saggio Raising Kane di Pauline Kael, uscito nel 1971 sul New Yorker, i cui fantasmi assopiti ma mai placati questo film ha decisamente risvegliato - potremmo quindi prendere in considerazione che Fincher non necessariamente voglia percorrere una strada puramente documentaria. Lo stesso regista fa dire a Mankiewicz che si sta occupando del “ritratto di un uomo”, di cui in due sole ore non si può dare una versione esaustiva ma appena “un’impressione”. Queste parole sono chiaramente riferite al personaggio Hearts/Kane, ma nulla vieta di intenderle come riferite allo stesso Mankiewicz narrato da Fincher.

Ecco allora che questa “impressione” passa attraverso l’efficace descrizione dell’ambiente (le atmosfere della Hollywood anni ’30 e del passaggio da un cinema di fattura corale a quello autoriale), la formazione culturale dello sceneggiatore (la sua erudizione, l’innato talento per la scrittura diretta, tagliente, cinica, l’ossessione della battuta ad ogni costo) e la sua dimensione più intima e personale (il suo amore sia per la moglie Sara - quella poor Sarah che oggi anziché povera definiremmo santa - sia per gli amici, ma anche per l’alcool e le scommesse). Nel ritrarre il protagonista, Fincher è aiutato dall’ottima prova attoriale di Gary Oldman che, debitamente annebbiato e stropicciato, contribuisce a dar vita e spessore sia al talento che alle debolezze dello scrittore.

Nonostante la vicenda biografica di Mankiewicz si intersechi prepotentemente con la genesi di Quarto potere e nonostante il regista nel suo film renda omaggio al capolavoro di Welles in tanti modi (la struttura a flashback, il bianco e nero, la fotografia a tratti espressionista, certe inquadrature dal basso, la musica mimetica), possiamo però provare a guardare a Mank con un approccio meno contenutistico e più autoriale. Nella tessitura del film son infatti presenti due grandi temi che ritornano spesso nella filmografia di Fincher: la scrittura e il tradimento.

Se l’amore per la scrittura e il dato letterario è ben evidente in Seven, sia Fight Club che Il curioso caso di Benjamin Button son tratti da famose opere di narrativa. Il mondo editoriale è fortemente presente anche in L'amore bugiardo, dove marito e moglie sono entrambi scrittori, così come lo stesso The Social Network ruota intorno ad un particolare tipo di scrittura, quella informatica. Parimenti il tradimento risulta quasi sempre presente nell’opera di Fincher, declinandosi sotto molteplici aspetti: da quello di ruolo (il carnefice che diventa vittima in Seven, il protagonista tradito dal suo stesso alter ego in Fight Club, l’uomo d’affari la cui vita viene scardinata dalle regole di un gioco in The Game) a quello amicale (The Social Network), da quello coniugale (L’amore bugiardo) a quello fisionomico (Il curioso caso di Benjamin Button). E anche in Mank molto sembra dipanarsi fra i due poli della scrittura e del tradimento, arrivando addirittura ad un’ipotesi di coincidenza.

La scrittura del film nasce negli anni ‘90, firmata dal padre del regista, Jack Fincher, giornalista e sceneggiatore scomparso nel 2003. Una sceneggiatura, a tratti molto verbosa, che sostanzialmente parla della genesi di un’altra sceneggiatura, ma che va oltre, approfondendo il tema dell’atto creativo e della parola scritta fin quasi ad ipotizzare una supremazia di quest’ultima sulle altri fasi di realizzazione di un film. In una delle prime scene del film infatti Fincher allude, seppur ironicamente, al lavoro degli sceneggiatori come “a prova di regista”. Ma lo stesso protagonista ci appare ossessionato dall’atto creativo dello scrivere e quando arriva a comporre l’opera migliore mai realizzata in vita sua tenta poi di difenderla ad ogni costo, paragonandosi ad un Don Chisciotte che combatte contro i mulini al vento.

Il tema del tradimento avvolge poi il film in almeno in due direzioni. La prima è quella del tradimento di Mankiewicz nei confronti di Hearst e Marion Davies, coppia che lo sceneggiatore frequentava da anni in amicizia (non a caso, in uno dei tanti flashback, Marion, interpretata con misura e delicatezza dalla brava Amanda Seyfried, ci appare issata su una pira durante le riprese di un film, quasi a suggerirci il ruolo di agnello sacrificale). La seconda direzione è quella del tradimento di Hearst nei confronti dei propri ideali e di quelli dello sceneggiatore, che si concretizza, secondo Fincher, nel mancato appoggio a Upton Sinclair, candidato democratico al ruolo di governatore della California nelle elezioni del 1934, e viceversa nel sostegno alle supposte politiche manipolative dei produttori cinematografici Louis B. Maier e Irving Thalberg. In questo caso Fincher dà una lettura piuttosto politica e finanche di attualità alle dinamiche dei tradimenti che si consumano nel film, partendo da una sete di vendetta di Mankiewicz per le ingerenze di Hearst e arrivando alla manipolazione dell’informazione attraverso i cinegiornali d’epoca, quasi a rammentarci l’attuale fenomeno delle fake news e degli endorsement del mondo editoriale americano su quello politico.

Ma proprio là dove la bellezza di una delle migliori sceneggiature della storia del cinema rischia di essere offuscata dai fumi delle interpretazioni biografiche, là dove la scrittura rischia quindi di essere tradita, ecco che Fincher si arresta e ci fa arrestare sulla soglia. “Questa - fa dire al suo Mankiewicz che commenta la discussa paternità dell’Oscar alla sceneggiatura di Quarto potere - è la misteriosa magia del cinema”.