Dopo aver accompagnato la sorellina in ospedale, Maria e suo zio Barbe Zef sono stati invitati nella tenuta detta Case Rotte dal gobbo e maturo proprietario, l’uomo più facoltoso della zona. Questi ha organizzato un banchetto, ufficialmente per evitare che zio e nipote si mettano in viaggio verso casa nella rigida notte invernale e, inoltre, ringraziare Barbe perché tempo prima gli ha salvato una vitella. In realtà l’uomo ha adocchiato Maria: “Ho visto come ti ha palpato con gli occhi!” dice Barbe alla ragazza, annunciando la tragica svolta del racconto.

Prima del momento lieto della festa, di Maria sappiamo che è orfana (il padre non c’è più da quando lei era piccola, la madre muore a causa di un dolore oscuro), povera, sola. Non ha amici, una vita sociale. L’unico ragazzo per cui le batte il cuore è emigrato in America. Quella festa danzante è per lei un evento clamoroso. Tutti i maschi presenti, dal vecchio gobbo ai braccianti sfruttati, la bramano quale nuovo oggetto sessuale. C’è qualcosa di diverso in te, le dicono, mentre se la passano tra un ballo folkloristico e l’altro nell’attesa di conquistarla (no, restano tutti al palo: lei vuole tornare sui monti). E così, in un primo piano che la coglie di tre quarti, ci rendiamo conto, forse per la prima volta, che Maria è ancora una bambina. Ha quindici anni, un corpo che tradisce la giovane età, l’esperienza di chi non conosce il mondo. Il suo orizzonte è quello delle montagne, la fiducia verso i medici non sarà mai come quella riposta nella saggezza ancestrale di una vecchia signora e il futuro che forse ipotizza somiglia al presente di stenti che condivide con i due parenti rimasti e le bestie allevate. È qui, nelle pieghe erotiche di questo passaggio narrativo, che Maria Zef rivela la sua dimensione di romanzo di formazione. Aspro come il dialetto friulano che qui suona come una musica inaccessibile. Realistico non solo per la sintonia con il corso delle stagioni ma soprattutto per la verità che trasuda il dramma umano di personaggi dimenticati da Dio.

Tratto dal romanzo scritto da Paola Drigo nel 1936, Maria Zef è una delle operazioni più audaci della televisione italiana: tre puntate in una lingua incomprensibile e sottotitolata, un cast di sconosciuti presi dalla vita, una storia che non ha nulla di bucolico, per certi versi non rifiuta d’essere sgradevole e comunque si mantiene lontana dal gusto contemporaneo. Penultimo lavoro di Vittorio Cottafavi, che in sede di sceneggiatura si è fatto affiancare dal poeta friulano Siro Angeli (impegnato anche nel ruolo di Barbe). Maestro del melodramma, qui lo lascia affiorare nei colori bruni di una miseria sia sociale che umana, nelle crepe di case rotte per gli effetti devastanti della natura, nei volti affaticati di gente che la speranza non sa nemmeno se appartiene a questo mondo. Cinema rigoroso, purissimo.