Dice Emi De Sica, sempre presente a Bologna ogni qualvolta c’è da presentare al pubblico un nuovo restauro, che Miracolo a Milano è il suo preferito tra quelli diretti da suo padre Vittorio. Non si fa fatica a crederle, considerando che il regista lo girò quando lei aveva undici anni: dopo i fiumi di lacrime versati per Sciuscià e Ladri di biciclette, finalmente una favola divertente, esultava la ragazzina. Non lo capì Guido Aristarco, principe della critica del tempo, che denunciò “l’involuzione” di De Sica nel suo “film meno personale”, in cui “l’ideale collaborazione” con Cesare Zavattini “non si è verificata”. Col dovuto rispetto, è piuttosto miope interpretare Miracolo a Milano – con quel titolo, poi! – con gli strumenti del realismo, non fosse altro per un incipit scopertamente rivelatore tra l’inequivocabile “c’era una volta…” e un bambino nato sotto un cavolo.

Spiegando il suo entusiasmo puerile, Emi De Sica fornisce una chiave di lettura fondamentale: è un film da filtrare anzitutto attraverso gli occhi di un bambino, un racconto morale dove ogni personaggio assomiglia a un cartone animato e gli oggetti forniscono la possibilità di gag immediate. La magia, certo: i poteri che permettono a Totò, il protagonista, di esaudire i sogni dei suoi amici poveri. Ma la dimensione da favola che anela lo sguardo infantile non è già tutta nell’episodio iniziale in cui Lolotta, la mamma adottiva di Totò, trasforma il latte colato a terra in un fiume, collocandovi delle casette attorno per creare un villaggio? In fondo è l’ipotesi di quella borgata dove Totò troverà riparo alla morte della mamma (anche qui: se una serie meccanica di numeri sostituisce le parole idonee al caso, mica può essere una roba così irreparabile, la morte…), il presagio del futuro di un bambino speciale che scoprirà di poter comunicare con gli angeli.

Chiaro che tutto poteva sembrare eccessivo all’epoca, dai poveri tutti buoni e sfortunati ai ricchi naturalmente spregevoli secondo lo schema del manicheismo populista. Peraltro con le straordinarie scenografie di Guido Fiorini, sbizzarrito sia nella miseria lirica delle baracche sia nella sontuosità dell’ufficio del padrone, e la fotografia del leggendario G.R. Aldo a definire i confini labili tra sogno e realtà: due eccellenze italiane che dimostrano un’intelligenza superiore a quella di Ned Mann, mago degli effetti speciali arrivato dall’America e rivelatosi incapace di far sparire i fili delle scope volanti. E se paradossalmente il segreto di questo film sia tutto in questa mancata scomparsa dei fili, quasi a svelare che l’errore sia in realtà una scelta poetica? Mettere in scena il trucco per dichiararsi apologo utopico?

E forse Miracolo a Milano – tanto apprezzato all’estero (primo premio al Festival di Cannes e altri prestigiosi riconoscimenti negli Stati Uniti) quanto incompreso e osteggiato in patria – faceva paura proprio perché sfuggente e limpido, dominato dalla trasparenza di un messaggio così chiaro e semplice veicolato da un linguaggio surreale del tutto unico per il cinema italiano di quegli anni. Esito tra i più compiuti della poetica di Zavattini, trova nella regia ferma e sublime di De Sica (ribadiamolo: che magnifico direttore di attori!) la possibilità di una visione fantastica e universale: della quale si ricorderà Steven Spielberg: i ragazzini in bici di E.T. in fuga da questo mondo spietato come i poveri a cavallo delle scope in partenza da Piazza del Duomo verso un altrove migliore…