Dopo Le sorelle Macaluso del 2020 Emma Dante torna dietro la cinepresa, riportando su schermo una sua pièce teatrale. Da quella casa angusta del palermitano in cui vivevano le quattro sorelle, la regista apre il suo sguardo mantenendo però quella sensazione opprimente di claustrofobia che contraddistingueva l’opera precedente. Infatti, nonostante il film sia ambientato in mezzo ad ariosi paesaggi naturali, le inquadrature sono studiate per togliere spazio al cielo, tendendo sempre verso il basso, verso le profondità del mare dalle quali le protagoniste non riusciranno mai a risalire.

Con Misericordia, la regista palermitana racconta la desolazione di un piccolo villaggio di baracche in lamiera incastonato tra il mare e un’inquietante montagna dalla quale ogni tanto precipitano massi. In mezzo all’immondizia e alla miseria vivono molte donne costrette alla prostituzione, tra cui le protagoniste Betta (Simona Malato) e Nuccia (Tiziana Cuticchio) che accudiscono con affetto Arturo (Simone Zambelli). Si tratta di un ragazzo con una forte disabilità, “bambino nel corpo di un adulto”, come se la sua crescita si fosse fermata al momento stesso della sua nascita.

Il nuovo lavoro di Emma Dante ha una forte tensione poetica. Immagini sublimi e allo stesso tempo di degrado si alternano in un film che è parallelamente poema visivo e tragedia nel senso più autentico del termine. I rimandi alla tragedia e al mito sono molteplici, a partire dallo sfruttatore guercio che si fa chiamare Polifemo (Fabrizio Ferracane), che domina e terrorizza le ragazze, fino all’idea stessa della misericordia come pietà.

Per quanto non ci sia nulla di metafisico la vita delle donne che popolano il villaggio è segnata, su di essa si staglia un destino di sofferenza e infelicità. Per certi versi alcune scene del film sembrano avere una funzione oracolare in questo senso, in particolare le immagini surreali che mostrano Anna (Milena Catalano) sprofondare nel mare con rassegnazione, senza possibilità di risalita, come fosse un macigno.

Tuttavia quello che lascia perplessi però è prima di tutto il ruolo di Arturo che, come uno dei suoi fili colorati, attraversa il film attestandosi come una presenza costante. Arturo è l’esca dalla quale la cinepresa non riesce mai a staccarsi, è la lente che ci permette di osservare la miseria e la crudeltà di quel mondo, stimolandone una vitalità e una frizzantezza che altrimenti non avrebbe. Ed è l’unico elemento che sembra dare un senso alla vita colma di disperazione di Nuccia e Betta. Allo stesso tempo, però, Arturo finisce per giocare il ruolo di semplice strumento nelle mani della narrazione, oggetto il cui unico scopo è disvelare la vita miserevole degli altri personaggi. È, così, svuotato di un’identità, ridotto a semplice innesco della pietà delle sue madri adottive.

La regista, sfruttando il personaggio, sembra volerci mostrare, con una retorica un filino borghese, che anche i poveri possono avere buoni sentimenti, possono mostrare affetto ed essere belle persone. Così si ha l’impressione che Arturo si riduca ad essere un mero espediente di sceneggiatura per il quale non c’è un reale approfondimento né, forse, un reale interesse.  Ed è evidente come ciò che più interessa alla regista sia il contesto nel quale la storia è ambientata e la vita disagiata di queste donne, allora a cosa serve la presenza problematica di Arturo? Solo per rendere originale la pellicola o per strappare una lacrima allo spettatore? 

Inoltre, nonostante il film si sforzi di evitarlo, cade spesso in un’emotività fastidiosa e ricattatoria il cui acme è il buon finale rovinato da Avrai di Baglioni, canzone che esaspera senza alcun motivo una drammaticità già propria delle immagini. Si tratta di una tendenza al patetismo che caratterizzava, anche se in maniera ancora più invadente, Le sorelle Macaluso che, peraltro, presentava lo stesso identico difetto sul finale, in quel caso con una canzone di Gianna Nannini.

Così Misericordia si rivela un film modesto in cui non mancano i momenti di buon cinema, ma che si ritrova con un grosso problema strutturale che ne mina la riuscita, viziata, oltretutto, da una ricerca della lacrima e del patetico di cui una regista con le qualità di Emma Dante non avrebbe alcun bisogno.