Approfittiamo della proiezione al cinema Lumière de La grande guerra di Mario Monicelli nel contesto della retrospettiva dedicata al primo conflitto mondiale, per pubblicare un lungo approfondimento.

Monicelli, De Laurentiis e la loro “commediaccia”

Era il 1948. Dino De Laurentiis voleva produrre un film tranquillo, qualcosa di non molto diverso da quel Come persi la guerra di Carlo Borghesio con Erminio Macario che era stato un buon affare l’anno prima, anche se gli organi competenti gli avevano negato il permesso di esportazione. Mario Monicelli un giorno gli parlò di un soggetto di Luciano Vincenzoni intitolato Due eroi?, ispirato ad un racconto di Guy de Maupassant. La storia di due amici scansafatiche inghiottiti nel turbine di una guerra che finiscono per comportarsi da eroi rientrava perfettamente nelle corde di Monicelli ed era un ottimo spunto su cui lavorare. Più i due ne parlavano, più si delineava nella mente di De Laurentiis un film diverso da come lo aveva immaginato originariamente.

“Forse a un certo punto mi stavo inconsciamente rimangiando l’idea iniziale. Perché doveva essere per forza un film comico, alla buona? Che bisogno avevo di produrre un filmetto così? Perché non tentare un incontro tra il comico e il drammatico? Che cosa sarebbe venuto fuori, per esempio, inserendo in un film tipo All’ovest niente di nuovo le avventure di Vittorio Gassman e Alberto Sordi soldati scansafatiche?” (D. De Laurentiis).

Peccato che al tempo per molte persone fosse fuori discussione che Monicelli e De Laurentiis avrebbero trasformato il conflitto ’15-’18 in una delle loro “commediacce”, dal momento che all’annuncio del film insorsero varie associazioni d’arma infastidite dal presunto tono offensivo al rispetto patriottico, il ministero della difesa a cui era stata chiesta una collaborazione alle riprese inizialmente boicottò la pellicola (tanto che De Laurentiis minacciò di girare in Jugoslavia) e sui giornali apparvero diverse critiche che accusavano regista e produttore di umiliazione al sentimento nazionale, oltraggio alla memoria dei morti, rappresentazione ingiusta dell’amor patrio e vilipendio all’onore dell’esercito. Il tutto senza manco aver ancora visto il film.

Grande Guerra, grande tabù

La spiegazione di tale avversità la troviamo nel fatto che sin dal suo inizio e per tutti gli anni successivi la sua conclusione, il conflitto ’15-’18 fu tenuto sotto un alone di eroismo retorico e immaginifico. Durante la Prima Guerra Mondiale nessuno aveva intenzione di spiegare al pubblico cosa effettivamente fosse la guerra. “Uno degli errori maggiori fu rappresentarla costantemente come una cinematografia colorata e non come una un’impresa collettiva seria, sanguinosa, dura e complessa. Se v’è modo sicuro per distaccare un popolo da un avvenimento, è il farglielo concepire come un semplice spettacolo che si guarda dalla finestra” (A. Valori).

La popolazione, frastornata dalle pagliacciate propagandistiche che il cinema del periodo sfornò e ingannata dai giornali, si convinse sempre più che la guerra non doveva essere poi tanto brutta. Ma si svegliò bruscamente quando mezza Italia fu invasa dai profughi di Caporetto: insieme ad essi i 400.000 soldati sbandati che si riversarono sulle strade d’Italia costrinsero tutti all’esame di coscienza. Dopo l’armistizio del 4 Novembre 1918, l’Italia attraversò un periodo di pace relativamente breve considerando che nel 1922 Benito Mussolini sarebbe andato al potere. Si poteva approfittare di quella manciata di anni per fare finalmente luce sul conflitto, togliere dagli occhi della gente l’immagine sfalsata che il governo le aveva appositamente confezionato, invece la guerra “fu gettata in un angolo, i reduci rientrarono nelle case, ripresero il lavoro, abbassarono la testa e accettarono anche questa ingiuria: bugie prima, silenzio dopo. La guerra? È stata vinta, zitti e basta” (M. Monicelli).

L’avvento del fascismo non rese certamente le cose più facili. La vecchia retorica venne sostituita con una nuova, nuovi tabù imposero ai cineasti il divieto assoluto di criticare o schernire la guerra, che si trattasse della Prima o della Seconda non aveva importanza, la figura eroica del soldato non doveva essere in nessun modo intaccata. Il fascismo applicò una censura severa nei confronti delle pellicole straniere che non esaltavano i valori militari come All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone, Westfront (1930) di Georg Wilhelm Pabst, I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1921) di Rex Ingran, La grande parata (1925) di King Vidor, Addio alle armi (1932) di Frank Borzage e La grande illusione (1937) di Jean Renoir. Senza contare ovviamente film che prendevano in giro direttamente i regimi totalitari dell’epoca come Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin e Vogliamo vivere! (1942) di Ernst Lubitsch.

“Durante gli anni del fascismo la Grande Guerra era un tabù. Era stata esaltata ed enfatizzata sempre come una grande battaglia fatta dagli italiani che di slancio si erano arruolati ed erano accorsi sotto le bandiere d’Italia per fare la Quarta Guerra d’Indipendenza, conquistare Trieste, i confini della patria. Invece non era vero niente. Nessuno dei cinque milioni di italiani che furono mobilitati allora sapeva niente. Nel 1915 fra l’altro il 70% degli italiani era analfabeta, quindi non sapevano nemmeno dove si trovavano. Andarono lì mal guidati, mal vestiti, mal nutriti, male armati e stettero quattro anni sotto il sole, in mezzo al fango, la neve, le bombe, resistendo ad una guerra contro un nemico che non sapevano manco chi era né perché dovevano combatterlo. Questa fu la Grande Guerra” (M. Monicelli).

Nel secondo dopoguerra la situazione migliorò. Grazie al neorealismo prima e al cinema comico poi, le battaglie della Seconda Guerra Mondiale vennero mostrate con una disinvoltura finalmente libera dai dettami della propaganda bellica: Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Il generale della Rovere (1959) di Roberto Rossellini, Siamo uomini o caporali? (1955) di Camillo Mastrocinque, La ciociara (1960) di Vittorio De Sica e Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini portarono finalmente sugli schermi le verità che il fascismo aveva tenuto nascoste per anni. Eppure mancava ancora in tutto ciò un film sulla Prima Guerra Mondiale, un tabù al tempo ancora intoccabile.

Quando tutto sembra perduto, ecco che arriva lui...

Quella di Monicelli e De Laurentiis fu pertanto un’impresa titanica. Le critiche infiammarono gli animi ed il rischio di non veder realizzato il film per le troppe tensioni era sempre dietro l’angolo. La situazione era a dir poco insostenibile ed è a questo punto che entra in scena l’ultima persona che potremmo aspettarci a salvare un film del genere: Giulio Andreotti. Proprio lui, dopo aver letto la sceneggiatura scrisse un comunicato dove affermò: “Mi pare si possa escludere in senso assoluto che vi siano vilipendi o manifestazioni di ostilità all’esercito”. E intervistato anni dopo, avrebbe aggiunto: “Non solo mi accorsi che non era vero quello che circolava, che il timore non era fondato, ma che anzi sul piano umano forse veniva fuori un patriottismo vero. Un carattere direi eroico, in questo caso, di persone estremamente normali”. Forti dell’appoggio dell’allora ministro della difesa, Monicelli e De Laurentiis girarono il film senza più far caso alle polemiche e il risultato fu La grande guerra, il primo tentativo italiano di ricostruire sul grande schermo un affresco non retorico del conflitto ’15-’18.

Un enorme film antiretorico

Se con I soliti ignoti Monicelli dettò le regole del gioco, i criteri della commedia all’italiana, con La grande guerra raggiunse probabilmente la tanto ricercata perfezione d’equilibrio tra comico e tragico. I tratti della vicenda richiamano infatti tutti i crismi del genere: protagonisti pezzenti lontani e vicini allo spettatore, realismo storico-sociale come sfondo, argomento drammatico trattato in modo comico, finale amaro. Il gruppo di lavoro chiamato alla sua realizzazione vantava i nomi più illustri del filone: Age e Scarpelli (con Monicelli) alla sceneggiatura, Monicelli alla regia, musiche di Nino Rota, Sordi e Gassman protagonisti.

I soliti ignoti che vanno alla guerra, come lo chiamò scherzosamente qualcuno al tempo, è un soprattitolo riduttivo non per la descrizione della vicenda (per la quale è azzeccatissimo) ma perché riduce, appunto, le sue dimensioni. Ciò che maggiormente distingue La grande guerra da I soliti ignoti è l’imponenza dei mezzi messi a disposizione dai produttori: le maschere di Gassman e Sordi sono schiacciate e affaticate dalla rappresentazione del conflitto, la morte aleggia come uno spettro in ogni inquadratura, nei volti stanchi dei protagonisti, nelle divise sporche di fango, nei respiri affannati, nelle sigarette fumate nervosamente. Non è una guerra lampo come quella dei Fratelli Marx, ma una grande guerra quella di Monicelli. E in essa lo spettatore è immerso, sin dalle prime scene con gli scarponi sporchi, la distribuzione del rancio, le lettere scritte ai propri cari, la cucitura dei bottoni della casacca.

La grande guerra è considerato dagli storici una delle migliori ricostruzioni storiche della guerra. Monicelli volle cancellare la retorica della guerra intesa come uno sport eroico, fare un film dal punto di vista del soldato senza trasformare il conflitto in un circo pirotecnico ammaliante. Inizia qui dunque il suo personale “revisionismo comico”, che troverà dapprima minor fortuna con I compagni (1963) e in seguito grande successo con L’armata Brancaleone (1966). L’intento era distruggere con l’irriverenza della commedia tutta una serie di luoghi comuni legati al nostro passato e portare avanti il discorso iniziato dal neorealismo: lasciare il cinema finalmente libero di raccontare la storia d’Italia come più gli aggrada. La grande guerra si inserisce nella sentita corrente alla quale presero parte anche Comencini con il già menzionato Tutti a casa (1960) e Dino Risi con Una vita difficile (1961). Tutti questi registi non vedevano l’ora di poter dire cosa significarono davvero le guerre per la storia italiana, dopo anni passati a studiarle su libri di scuola imbevuti di retorica patriottica fascista. E per dirlo scelsero il registro più difficile: il comico.

Grande Guerra, grande tabù, ma grande trionfo!

La grande guerra vinse il Leone d’Oro alla XX Mostra Internazione del Cinema di Venezia ex aequo con Il generale della Rovere di Rossellini. In seguito l’uscita nelle sale fu accompagnata da un clamoroso successo di pubblico a cui si aggiunsero due Nastri d’Argento, tre David di Donatello e una nomination agli Oscar come miglior film straniero. “Quando il film fu terminato, uscì nelle sale ed ebbe quel successo clamoroso, alla fine tutte quelle cose che furono dette in gran parte rientrarono. La stampa dovette prendere atto che il film era una cosa diversa da quella che si erano immaginati. L’avevano contrastato perché gli autori della commedia all’italiana, vilipesa e strapazzata, andavano a toccare un tabù, una sacra cosa, e quindi pensavano che sarebbe finito tutto in risate e volgarità. Quando poi uscì il film videro che tutto questo non era vero. E tutto si spense” (M. Monicelli).