Come qualsiasi ossessione, quella di Gustav von Aschenbach per il giovane Tadzio non può che essere costellata di contrappunti, compresenze disarmoniche di sensazioni (o melodie, come nel caso del compositore) e languori perversi, “assurdo contrappunto di dolcezze e furori”, come in uno dei lamenti d’amore di Salvatore Quasimodo. Aschenbach vive e consuma un amore non ascrivibile a un quadro di contrapposizioni manichee, calcolabile in ogni suo sviluppo, matematico e rigoroso, come vorrebbe che fosse la sua musica, quanto, invece, completamente irrazionale, folle: è un paradiso di ambiguità e doppi sensi, quell’amore, riprendendo le parole del mefistofelico confidente apparso nei flashback del protagonista, e quegli ultimi gesti prima di morire lo dimostrano; l’apparenza, il trucco e l’ingenua, quasi tenera caparbietà di chi vuole ancora stringersi alla giovinezza.

Nel 1971, Luchino Visconti gira Morte a Venezia, a distanza di poco più di un decennio dalla morte di Thomas Mann. Non è una coincidenza che Visconti abbia deciso di girare il film, considerando la profonda ammirazione che egli nutriva per lo scrittore. Questa ammirazione è testimoniata dal fatto che, da giovane, Visconti portava con sé, ovunque andasse, due libri di narrativa: uno era un romanzo di Gide e l'altro era Morte a Venezia.  Nelle loro carriere, i due artisti s’incontrarono una sola volta, mentre Visconti allestiva un opera-balletto tratta proprio da uno dei racconti di Mann, Mario e il Mago. L ́incontro fu cordiale, nonostante il regista fosse timido col grande scrittore. (Robert Aldricht, The seduction of the Mediterranean: Writing, Art, and Homosexual Fantasy (New York: Routledge, 1993)

Adattare il riverbero costante di parole, pensieri e lucubrazioni di Aschenbach sullo schermo è risolto da Visconti rendendo il protagonista un compositore, anziché scrittore, ed è opinione diffusa che si sia ispirato proprio a Gustav Malher. Due elementi, infatti, concorrono a rendere così elegiaco, struggente e brutale un dissidio prima esperito attraverso le parole: le musiche e il portamento e la mimica di Dirk Bogarde. Malher sublima il percorso di autodistruzione del protagonista fin dalle prime battute del film, e Beethoven risuona in due parentesi distinte ma speculari: sia Tadzio che la prostituta Esmeralda – vista in un flashback – suonano, in solitudine, Für Elise. Momento rivelatorio in uno spazio e un tempo silenziosi e tesi, dalla carica erotica fortissima, una sensualità che Visconti lascia dispiegarsi solo tramite gli sguardi e una gestualità minima, visibile, tuttavia, solo in una brevissima rêverie.

"Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo: ogni giorno, ogni ora s’incontrano, si osservano e nello stesso tempo, costrette per civiltà o per bizzarria personale a insistere nella finzione, serbano un contegno indifferente e staccato, non si salutano né scambiano parola. Tra loro si forma un fluido d’inquietudine e di curiosità esacerbata, un isterico bisogno, inappagato o innaturalmente represso, di conoscenza e di scambio, e soprattutto, infine, una sorta di ansioso riguardo: poiché l’uomo ama l’uomo e lo onora finché non è in grado di giudicarlo; e dall’incompleto conoscersi nasce il desiderio.” Thomas Mann, La morte a Venezia. 

Trattandosi di sguardi, e di volti, non si può non parlare dell’uso che Visconti fa dello zoom, definito da Michael Wilson sensuale, lirico e musicale, in una delle scene chiave del film, ovvero quando Aschenbach e l’amico discutono dell’ispirazione dell’artista e della natura dell’arte: Aschenbach pensa che la creazione della bellezza sia un atto puramente spirituale e, in quanto tale, solo con il completo dominio dei sensi l ́artista può̀ conquistare l’assoluto, tra la saggezza e dignità umana, aggiungendo che l’artista deve essere un modello di onestà e di equilibrio. D’altra parte, l’amico sostiene che l’arte è in sé ambigua e che la bellezza appartiene ai sensi e, in virtù di questo legame, non può raggiungere lo spirito.

Il male è l’alimento del genio, l’arte e la musica “un paradiso di ambiguità e doppi sensi.”. Una dissonanza che è anche quella che Mann riscontra in La Nascita della tragedia di Nietzsche, sull’inconciliabilità tra apollineo e dionisiaco, Aschenbach e Tadzio, potremmo dire: giovane e bellissimo, con una fisicità e un corpo che sono eros per definizione, i sorrisi e gli sguardi ambigui (“Non puoi sorridere così...Ti amo”), Tadzio è il corpo sensibile della sua tanto anelata spiritualità, l’incarnazione di un ideale di bellezza dionisiaca, pura ed enigmatica, (alla fine, la posizione di Tadzio in riva al mare ricorda la stessa delle statue greche), quella a cui dovrebbe tendere l’arte di Aschenbach. E muore contemplandola, consapevole della sua unicità.