Per utilizzare un celebre aforisma, Mulholland Drive (2001) è un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Il che, va detto, si può applicare a ogni opera di David Lynch – e poco importa che si tratti di un lungometraggio, di una serie TV o di un corto – ma è una definizione che calza in modo particolare per alcuni dei suoi più celebri film, dove l’universo onirico, visionario e psichedelico deflagra con tutta la forza possibile. Mulholland Drive, che è finora il suo penultimo film e l’ultimo girato in pellicola, è una summa, una sorta di compendio dell’universo lynchiano, in grado di raggiungere un apollineo equilibrio tra il carattere anti-narrativo di film estremi come Eraserhead e Inland Empire e il racconto più classico che troviamo in noir quali Velluto blu e Cuore selvaggio.

Il film riesce a essere al contempo sia un’appassionante vicenda thriller con una trama precisa, ben strutturata e ricca come al solito di elementi grotteschi, sia un delirante viaggio nel mondo del sogno e dell’inconscio, dove non ci sono risposte ma solo indizi, ipotesi e libere interpretazioni dello spettatore. Se escludiamo la parentesi insolitamente realistica di Una storia vera, Lynch veniva da quell’altro monumento che è Strade perdute (1997), di cui il nostro film riprende alcuni caratteri e una struttura narrativa per certi versi simile, con realtà parallele e personaggi che cambiano di identità: Lost Highway era un’opera anch’essa a metà fra il thriller e il delirio dell’assurdo, e con Mulholland Drive il geniale regista prosegue la strada intrapresa in tal senso, ma che trovavamo già in Twin Peaks (sia la serie TV che il film prequel).

L’opera è un parto, in tutto e per tutto, della mente di David Lynch, il quale scrive anche soggetto e sceneggiatura (pare che in origine fosse stato concepito come pilota di una serie televisiva), ambientando la storia non più in provincia ma a Hollywood. Il filone narrativo principale ha come protagonista una ragazza (Laura Harring) che percorre in auto la strada di Mulholland Drive: quando sta per essere uccisa dai suoi autisti, subisce un incidente che paradossalmente le salva la vita. Ferita, spaventata e priva di memoria, si incammina nel centro abitato, per poi introdursi in una villetta, dove il giorno dopo giunge Betty Elms (Naomi Watts), un’aspirante attrice che è arrivata a Hollywood per coronare i suoi sogni. Le due ragazze stringono amicizia e cercano di scoprire l’identità della smemorata, risalendo vari indizi fino a giungere in casa di un’altra donna, Diane Selwyn, che viene trovata morta. Parallelamente, seguiamo altre tre storie: un ragazzo che è ossessionato da un incubo dove incontra un uomo orribile, un killer imbranato, e Adam Kesher (Justin Theroux), un regista a cui la produzione – tramite oscuri emissari di una loggia segreta – impone come protagonista del suo prossimo film un’attrice, tale Camilla Rhodes. In seguito, una piccola scatola blu che Betty apre con una chiave permette di rivelare (forse) chi sono tutti questi personaggi.

Una delle tante peculiarità di Mulholland Drive sta nello svolgimento della sceneggiatura: la quale non è unitaria, e segue attraverso blocchi paratattici alternati le vicende di vari personaggi, destinati a intrecciarsi fra loro nei modi più incredibili, quando tutto sarà stravolto con l’apertura della scatola blu. E se c’è un denominatore comune in tutta la storia – con una durata consistente, quasi due ore e mezza, che però scorrono tutte d’un fiato grazie a una regia magistrale – esso è il profondo senso di inquietudine e disagio che Lynch riesce a farci respirare in quasi tutte le scene. Dove il “quasi” non è da intendersi come un obiettivo raggiunto solo in parte, ma come una precisa scelta, poiché il regista può concedersi il lusso di farci spaventare, immaginare, o addirittura divertire in alcune scene: pensiamo al sicario pasticcione che in una stanza d’hotel deve uccidere un testimone dopo l’altro, oppure a Justin Theroux che rientra a casa e trova la moglie a letto con l’amante, da cui viene picchiato e che sarà a sua volta pestato da un energumeno.

Ma soprattutto, inframmezzata da questi siparietti pregni di spirito grottesco e umorismo nero, ciò che il film trasmette è angoscia: una paura irrazionale, primigenia, fatta di incubi e allucinazioni, dove i veri mostri sono quelli partoriti dalla nostra mente – e, se ci pensiamo, accadeva così fin da Eraserhead. La paura in Mulholland Drive ha varie facce, e Lynch utilizza tutti gli strumenti registici ed estetici per immergerci nel mistero. Ci sono le strade notturne, simili a quelle di Lost Highway, che Laura Harring percorre all’inizio, sulle note ossessive e ipnotiche di Angelo Badalamenti – che accompagneranno più volte le immagini; ci sono i movimenti di macchina, in oggettiva o soggettiva, tramite cui esploriamo assieme alle protagoniste l’elegante villetta dove Betty è andata a vivere, e dove ci aspettiamo da un momento all’altro di veder comparire qualcosa; e c’è l’uomo dall’aspetto orribile che popola gli incubi del ragazzo, un essere mostruoso che compare all’improvviso davanti alla soggettiva del malcapitato, facendoci sobbalzare ogni volta sulla poltrona; così come ci spaventiamo vedendo il cadavere putrefatto della sconosciuta sul letto; ma persino due innocui vecchietti che sorridono risultano inquietanti col loro ghigno diabolico. Vediamo poi una miriade di personaggi assurdi (la vecchia megera, il cowboy, i produttori con l’aspetto da mafiosi), e situazioni che Lynch recupera dal mondo visionario dei suoi film precedenti: la stanza del Potere col nano, avvolta nella penombra, dove non sappiamo mai cosa succede, richiama inconfondibilmente la Loggia nera di Twin Peaks (anche l’attore è lo stesso); e il teatro dove si recano ad un certo punto Watts e Harring – col Mago che pronuncia arcane parole in varie lingue, Rebekah Del Rio che canta un brano di Roy Orbison, le luci blu abbaglianti – sembra il locale dove Isabella Rossellini cantava in Velluto blu.

Mulholland Drive è disseminato di indizi, è un film da vedere più e più volte affinché tutto torni (e comunque tutto non quadrerà mai), anche perché a Lynch non interessa qui costruire un giallo nella sua accezione comune, ma esibire ancora il gusto per il paradosso. Con il disvelarsi dell’ignoto contenuto nella scatola blu (che sono poi i nostri sogni, il nostro inconscio), molte cose saranno rivelate, molte altre resteranno ignote, e vedremo che non tutti i personaggi sono chi credevamo, in una sorta di nastro di Moebius simile a quello già utilizzato da Lynch in Strade perdute. Volendo sintetizzare, giusto per rendere l’idea, Betty non esiste, è tutto un sogno, una proiezione mentale di Diane Selwyn (ancora Naomi Watts): la quale è innamorata dell’attrice Camilla Rhodes (ancora Laura Harring), ed essendo stata rifiutata in favore del regista Adam Kesher, decide di assoldare un sicario per ucciderla, salvo poi suicidarsi per il rimorso. Moltissimi elementi della prima parte (il nome della strada, la custode, la chiave blu, il cadavere) tornano con un altro significato nella seconda, che consiste poi nell’avverarsi di quanto avevamo visto nel sogno premonitore.

Ma è inutile cercare troppe spiegazioni: Mulholland Drive non è un film da spiegare, bensì da vivere e da interpretare liberamente, talmente è impregnato di psicanalisi ed elementi fantastici e surreali. Non sono poi da trascurare alcune scene erotiche molto carnali e una critica neanche troppo velata al mondo di Hollywood: la città dei sogni si trasforma nella città degli incubi, il luccichio del divismo nasconde corruzione e clientelismo, e i sogni di celebrità e successo si infrangono inesorabilmente.