L’esordio alla regia di Kasia Smutniak unisce l’esigenza della testimonianza all’intimità del confronto con le proprie origini. L’attrice polacca torna nel suo paese natio per spingersi verso luoghi proibiti all’occhio delle cinepresa, nella zona rossa al confine tra Polonia e Bielorussia in cui è impedito l’accesso a chiunque e dove il governo polacco ha finanziato la costruzione di un muro.

Un’area controllata per impedire l’ingresso nel paese ai rifugiati, provenienti principalmente dal Medio Oriente, che si trovano alla fine di un lunghissimo viaggio attraverso la rotta balcanica. La ricerca di quel muro, che al momento delle riprese nel marzo 2022 era nelle prime fasi di costruzione, è figlia di una vitale volontà di vedere e di mostrare.

Realizzato solo con l’ausilio di una videocamera e di uno smartphone, e con il sostegno di un’unica operatrice (Marella Bombini), Mur è un documentario necessario e coraggioso che restituisce in tutta la sua cupezza l’atmosfera inquietante di questi anni. L’odio ipocrita e razzista verso i migranti è sempre più esteso e diffuso in Europa, stimolato da politiche che strumentalizzano i migranti per fini elettorali. Allo stesso modo la Bielorussia spinge i migranti verso la Polonia con il solo scopo di creare instabilità nel Paese vicino.

Così dopo aver attraversato l’inferno numerosi rifugiati si trovano a tentare di attraversare il confine rivendicando il sacrosanto diritto ad una vita dignitosa, offeso dalla disumanità del trattamento riservatogli dalle forze dell’ordine polacche. La regista ha sentito la responsabilità di usare la sua posizione di privilegio per puntare i riflettori su questa situazione, accusando la violenza prevaricatrice del suo paese d’origine.

Non si tratta però soltanto di un semplice reportage: Kasia Smutniak lo rende molto personale riavvolgendo la sua storia e ristabilendo un contatto con le sue origini. Il viaggio dell’attrice è intervallato da momenti di intimità familiare in cui torna a trovare i nonni che non vedeva da molti anni. Questo lato privato viene accostato al presente drammatico attraverso l’incontro con tanti attivisti che hanno scelto “fare la cosa giusta” aiutando i rifugiati dispersi nelle foreste, nonostante prestare soccorso ai clandestini sia diventato illegale.

A tenere insieme tutto c’è il muro, non solo come struttura fisica, ma come concetto che travalica il tempo per diventare un inquietante ritornello della storia. La regista lo accosta al muro di Berlino o a quello del cimitero ebraico del ghetto di Litzmannstadt a Łódź, che casualmente si trova di fronte alla cucina della nonna, ponendolo ad elemento simbolico di grande forza espressiva, eco del dolore del passato e del presente. Dunque, la ricerca di quel muro assume un valore significativo anche dal punto di vista simbolico: una volontà di vedere come presa di coscienza della storia che si ripete.

Così, come in un lungo piano sequenza, la regista attraversa il Paese, ascoltando le testimonianze dei volontari e, in un caso, accompagnandoli in una rischiosa missione di soccorso, nel tentativo di raccontare la questione nella sua complessità.

Mur è un film che ha la forza di denunciare senza il bisogno di gridare, le immagini sono chiare e non servono troppe chiarificazioni. Così la camera scorre sui militari disposti al confine, sulle tecnologie repressive tra droni e telecamere termiche e si resta impressionati di fronte all’enorme dispendio economico predisposto dal governo per un compito così irrazionale e disumano. Subito dopo le immagini ci mostrano l’accoglienza fiera e gioiosa riservata agli ucraini solo pochi chilometri più a sud. La regista sceglie di non aggiungere parole, basta vedere per capire.

L’esordio alla regia di Kasia Smutniak lascia piacevolmente colpiti per la sua semplicità e per la sua capacità di raccontare mostrando, senza peraltro prestare il fianco all’emotività, restando sempre lucida e razionale nonostante non sia una giornalista.