All’inizio c’era Cassavetes. Poi chiunque, ma sempre dopo di lui, come lui e grazie a lui. Così è ancora oggi per gran parte della scena underground del cinema newyorkese. Un'influenza comune che ha fatto scuola dando vita a filmografie numerose che, partendo dallo stesso binario, si diramano in altrettanti percorsi differenti. Se così è, ad esempio, per Noah Baumbach che parte da Cassavetes per arrivare a Woody Allen, altrettanto è per Josh e Benny Safdie - newyorkesi doc, classe ’84 e ’86 - ossessionati all’inizio da un cinema del reale, naïf, umano, poetico; spinti negli ultimi anni verso un cinema più narrativo, artefatto, dal consumo frenetico. Partendo, dunque, da Cassavetes (padre putativo dell’intera scena), occupando territori a loro inesplorati sulla scia di Scorsese, rivolti ad un cinema sempre meno povero nei mezzi, come nell’oggetto del loro sguardo.

Così, da The Pleasure of Being Robbed a Good Time, passando per Daddy Longlegs e Heaven Knows What, fino all’ultimo Diamanti grezzi, quella dei fratelli Safdie si dimostra essere una filmografia a due facce: ordinaria ed extra-ordinaria, povera e ricca, intima e celebre. Un cinema artigianale che ad ogni film si de-amatorializza sempre più. Partendo dalla regia lo-fi con macchina a mano degli esordi, arrivando alle inquadrature aeree di New York in Good Time. Da strette case in affitto dove vivono i protagonisti poveri, tossicodipendenti e spesso costretti a rubare, fino alle ricche proprietà di Howard Ratner in Diamanti grezzi, uscito in Italia su Netflix (un film dove il denaro, attenzione, anche quando è tanto, non è mai lecito né irrilevante, ma sempre ingranaggio narrativo).

Confrontando i titoli, le differenze sono lampanti. Eppure non sembra esistere un unico momento “spartiacque” che segni un prima e un dopo. Piuttosto una crescita progressiva sorretta da poche costanti, tra le quali: il luogo, il montaggio e gli attori. Per primo New York: muro portante di tutta la costruzione safdiana; cambiano gli interni, cambiano i quartieri, cambiano le classi sociali raccontate, ma dalla Grande Mela non si esce mai. Poi il personaggio precario, di una precarietà travolgente (in parte anche generazionale) sorretta, prima di tutto, dagli attori (memorabili il Robert Pattinson di Good Time e il Ronald Bronstein di Daddy Longlegs, per non parlare dell’Adam Sandler di Diamanti grezzi, valorizzato come solo Paul Thomas Anderson era riuscito a fare quasi vent’anni prima con Ubriaco d’amore) e, successivamente, da un montaggio serrato al servizio di un occhio che insegue e tallona, che mette lo spettatore alle calcagna del protagonista. È osservazione concreta del quotidiano di neorealistica memoria, rielaborata in una versione velocizzata, narrativizzata e allontanata dal concetto politico e sociale delle origini. Nasce dal “pedinamento zavattiniano” e sembra arrivare a qualcosa di definibile come “rincorsa safdiana”.

Dal montaggio ai movimenti, dal testo al contesto, è la frenesia il nucleo frammentato dell’opera di questi registi che si impongono come autori (con la A maiuscola) nell’immaginario pop-commerciale (vedi l’uso di divi, di riferimenti a sport di popolarità nazionale come il basket, di icone della musica pop come The Weeknd). Cineasti nel vero senso della parola (non solo registi e sceneggiatori, ma anche montatori, attori, produttori e direttori di fotografia), Josh e Benny Safdie rappresentano una voce che, pur provenendo da un contesto ben noto e inflazionato, si è imposta all’attenzione cinefila, attraverso uno sguardo tanto appassionato al cinema del passato quanto rivolto a nuove forme e immaginari.

Mentre le loro prospettive future si ampliano, in programma c’è già un remake del 48 ore di Walter Hill, segno di una progressiva “istituzionalizzazione” nella Hollywood più mainstream. Ci si augura che il successo renda il lavoro dei due fratelli newyorkesi sempre più audace e - come il protagonista dell’ultimo Diamanti grezzi - sbagliato, folle, incostante… quanto più travolgente.