“Mio padre mi ha insegnato il valore della segretezza”, ci dice Jürgen Mossack, figlio di un tedesco emigrato dopo la Seconda guerra mondiale. La segretezza, sostiene, non coincide con la privacy. La privacy, spiega il suo socio Ramón Fonseca, è chiudere la porta del bagno per fare pipì. La segretezza, invece, è chiudere la porta a chiave perché il motivo per cui si sta usando il bagno non riguarda i bisogni corporei e perciò deve restare fuori dalla portata degli altri. È solo una delle tante metafore che The Laundromat adotta per rendere accessibile al grande pubblico i passaggi di uno dei più grandi scandali finanziari: quello dei Panama Papers, che è anche il titolo italiano con cui verrà distribuito su Netflix il nuovo film di Steven Soderbergh.
Da quando si è rimangiato l’annunciato ritiro dalle scene, il regista americano non è solo protagonista di una fase di estrema fertilità creativa (quattro film in più o meno tre anni) ma continua a ragionare sulla macchina-cinema con la statura di un intellettuale cinefilo capace di saltare con disinvoltura e libertà da un genere all’altro per ripensarlo e studiarlo. Qui sceglie lo spirito della “commedia didattica sulla finanza” nello stile di La grande scommessa, consapevole della necessità di dover dare una forma plastica a una storia fatta di numeri con troppi zero e società offshore, materia certo più facile da maneggiare in un reportage, come quello firmato dal Pulitzer Jake Bernstein che è all’origine della sceneggiatura scritta da Scott Z. Burns.
E parte da lontano, dall’invenzione del denaro e del credito, presentando sin dalle prime scene Mossack e Fonseca, corpi comici dunque pericolosi che, eleganti e didascalici, introducono lo spettatore (in media poco avvezzo ai temi in questione) dentro un bignami su finanza creativa, corruzione internazionale, elusione fiscale e altre amenità. Attraverso queste figure, Soderbergh riesce a dare un volto al male (“che concetto così grande per una parola così piccola”, riflette Mossack), servendosi delle brillanti interpretazioni di Gary Oldman e Antonio Banderas, sulfurei quanto irresistibili nei panni dei cattivi che nell’ombra speculano su tutto, comprese le disgrazie.
Ed è proprio una disgrazia che ci permette di conoscere il contraltare dei due: una signora che, alla tragica morte del marito, si ritrova ad avere a che fare con una falsa polizza assicurativa e s’improvvisa detective per scoprire ciò che non torna. Common woman che Meryl Streep incarna con la consueta grandezza della sua recitazione sapientemente calcolata sul registro della normalità, la simpatica e tenace vedova rappresenta un po’ tutti noi ignoranti di finanza quindi vittime di un gioco più grande del quale subiamo i contraccolpi. Con una scelta geniale, Streep riserva una sorpresa sì evidente ma che si fa davvero gustosa nel finale in cui il film si spoglia letteralmente della sua corazza per prendere la strada della denuncia esplicita, pur senza mai dimenticare le coordinate di una commedia che trova una dimensione iconica nell’ultima immagine offertaci della diva.