“E piano piano si srotola di questo film la pellicola.” Il rapporto tra Paolo Conte e il cinema non va neanche spiegato perché Paolo Conte è il musicista più cinematografico di tutti. Tanto che ci si chiede se si sentisse l’effettivo bisogno di produrre un docufilm attorno alla sua figura, nota per la sua ritrosia e per la sua refrattarietà ad apparire. E allora appare inequivocabile che Paolo Conte, Via con me più che un documentario è una celebrazione dell’artista che nulla aggiunge e nulla toglie a quello che già sapevamo. Sia chiaro: non si parla di una fame morbosa di “gossip” o di simpatici aneddoti circa la sua vita, ma di ciò che la sua musica ha saputo già spiegarci con efficacia. Paolo Conte ha inventato una grammatica in cui c’è già tutto: l’infanzia, i luoghi del cuore, il jazz, l’enigmistica, il disegno, le chic et le charme. E, naturalmente, il cinema.

Vediamo Paolo Conte, Via con me come un omaggio, dunque. Non un “ritratto”, ma un tributo. E da questo punto di vista Giorgio Verdelli — musicofilo noto per i suoi documentari e i suoi Speciali Rai dedicati prevalentemente ad artisti italiani — con la Topolino amaranto è costretto a fare un’inversione di marcia rispetto ai suoi lavori, proprio in virtù di ciò che Paolo Conte rappresenta. Paolo Conte è un monumento, ma è soprattutto un libro chiuso e al contempo apertissimo, perché ha sempre fatto parlare le canzoni. Come ama ribadire: lui è “l’avvocato difensore delle canzoni.” E tanto basta.

Ma uno dei meriti del film è celebrare un patrimonio artistico senza pari attraverso le parole di collaboratori e amici. E allora ecco Benigni, sempre più enfatico ed esuberante, che trasforma “Conte” in “Principe”, e De Gregori, che racconta della “lesa maestà” compiuta a Un gelato al limon ai tempi di Banana Republic. E ancora: Jane Birkin, una delle pochissime elette ad aggiudicarsi un duetto con l’avvocato (ri-registrarono Chiamami adesso), Peppe Servillo, Paolo Jannacci. E tornando al cinema: Isabella Rossellini, Giovanni Veronesi e Pupi Avati, che con Paolo Conte ha suonato plurime volte — ricordiamo che Avati nasce clarinettista — e che finì per dedicargli anche uno speciale per la televisione. Ad arricchire il tutto, i ricordi degli esordi del fratello di Paolo, Giorgio, cantautore sopraffino mai abbastanza celebrato.

Uno sguardo “oltre” il musicista, che non può far altro che ribadirne l’importanza e perdersi in un canzoniere inestimabile, dove si lascia giocoforza indietro qualcosa. È il caso delle colonne sonore: è giusto e doveroso citare Tu mi turbi, ma è un vero peccato non scandagliare (almeno un po’) l’esperienza con Lina Wertmüller (Conte scrisse le musiche di Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada e Sotto.. sotto.. strapazzato da anomala passione). Ne approfittiamo per chiederci: verranno mai ristampate? Non possiamo più accontentarci della raccolta Paolo Conte al cinema, tragicamente parziale e da tanto, troppo tempo fuori catalogo.

Niente filologia in Paolo Conte, Via con me, proprio in virtù dell’universo che l’artista rappresenta. L’indagine capitola e non resta che seguire le suggestioni musicali, il filo cinematografico e labirintico delle canzoni. Mentre Verdelli attinge a piene mani dall’archivio sterminato di filmati editi e inediti, il film smette di essere “su Paolo Conte” e diventa un racconto sul vissuto emozionale di chi con le canzoni di Conte ci è cresciuto (e continua a farlo). E l’intervista che sta alla base del progetto, per quanto preziosa, diventa la conferma di un’austerità solo apparente: è un bisogno bambino di giocare con le parole e le note e di lasciare che siano queste a comporre il rebus della sua esistenza. E, ancora una volta, tanto basta.