Lo ha già scritto Alberto Savi, parlando di Alex Garland e del suo Men, che questo 2022 ha rappresentato un anno chiave per il cinema horror. Ma prima ancora, e oltre i nomi che hanno ricondotto l’horror nelle grazie del mainstream (Wan, Eggers, Peele, Aster), ci sono almeno tredici anni di produzioni che hanno rinnovato le promesse del genere.

Basti pensare solo a It Follows, The Invitation, Babadook, A Girl Walks Home Alone at Night, A Quiet Place e a tutte le produzioni A24 che hanno contribuito a re-inventare l’horror nelle sue innumerevoli declinazioni. Under the Skin, Green Room, It Comes at Night, Saint Maud e Lamb, sono titoli altrettanto familiari per chi vive con interesse questo tempo di revival. Un periodo che non accenna a sfibrarsi e che ha addirittura suscitato l’esigenza di scovare nuovi aggettivi che possano risemantizzare i termini di questo incontro tra arthouse, gore, horror psicologici e chi più ne ha più ne metta. 

Capita dunque di leggere da più parti di prestige ed elevated horror — e sì che si parla di un incontro fortunato di cultura convergente, valori estetici e produttivi, ma è difficile non soffermarsi su questi aggettivi e sul tentativo di “elevare”, come se ce ne fosse bisogno, il termine che accompagnano. Ciò che accade a un livello più profondo è un atto di rivalutazione storica di stilemi e immaginari popolari spesso considerati “di serie B”, e non solo da un punto di vista produttivo. Si pensi alla seconda vita di un film culto come The Wicker Man, caposaldo del cosiddetto folk horror, che a distanza di quasi cinquant’anni ispira sceneggiatori e registi più di quanto non abbia fatto all’uscita (Kill List, The Ritual, The Hole in the Ground, Men e, ovviamente, Midsommar). 

Ed eccoci finalmente giunti a parlare di Ti West, che proprio con la benedizione A24 finisce per omaggiare gli slasher e il cosiddetto filone psycho-biddy (non si può dire che la semiosfera horror non offra una nutrita sfilza di terminologie), che per Peter Shelley rappresenta un po’ l’unione tra l’orrore e il grottesco del Grand-Guignol — dalle tematiche di genere all’esplorazione dei disturbi psichici, passando per invecchiamento, sessualità, tracotanze e ossessioni. X: A Sexy Horror Story, uscito in primavera negli Stati Uniti e appena due mesi fa in Italia, ha guadagnato un notevole consenso di pubblico e critica, portando all’annuncio entusiasta di Pearl, suo prequel ideale. Un film girato segretamente in contemporanea con la sua “matrice”, e che oggi viene presentato come fuori concorso d’eccezione a Venezia 79.

Non si può dire che sia stato davvero sorprendente apprendere dell’esistenza di Pearl, dal momento che X presentava tanto nella sua coralità che nella (duplice) performance di Mia Goth tutte le potenzialità di un franchise, in totale sincronia con lo stato dell’horror contemporaneo. A sorprendere, piuttosto, è il fatto che Pearl riesca a fare meglio, e su più livelli, risultando uno dei film più divertenti e riusciti della Mostra. 

Dall’incontro letale tra Max, aspirante porno-attrice, e Pearl, un’anziana killer imprigionata in un corpo troppo vecchio e in una vita rurale che sognava diversa, Ti West sceglie di scandagliare le origini di quest’ultimo personaggio, portandoci dal Texas del 1979 a quello del 1918. E se X segnava un esplicito omaggio a Non aprite quella porta, West recupera certe atmosfere Hammer (Die! Die! My Darling e To the Devil a Daughter su tutti) con un piglio meno convenzionale e con un’ironia ancora più libera e sottile, che non cela stretti legami con la contemporaneità. 

In una casa isolata di campagna, Pearl vive con la madre oppressiva e il padre malato: nutrendo il “suo” alligatore (Theda, in evidente onore di Theda Bara) e sfogando istinti violenti (timidi e non), sogna il cinema, la danza, una vita sul palco, un’esistenza mondana. Mentre il marito Howard si trova a combattere sul fronte europeo, Pearl lotta con pulsioni impossibili da contenere, in uno scenario di miseria e illusioni che cita anche (e soprattutto) il nostro.

Alle ristrettezze economiche imposte dalla guerra si aggiunge la paura della cosiddetta spanish flu, ed è difficile pensare a una citazione più “meta” nel guardare Pearl al cinema mentre indossa la mascherina. In questo contesto si intrecciano temi complessi e mai banali(zzati) come la repressione della sessualità, l’ambizione, invidie e competizioni psicologiche, le ambiguità imposte da ansie sociali e familiari.

Nel seguire la strampalata deriva di Pearl, pronta ad abbandonarsi a una spirale di violenza sempre più efferata, è così semplice costruire ponti con l’odierno che serve quasi aggrapparsi agli oggetti di scena per contestualizzare il film storicamente: il fotogramma di una pellicola, un forcone, una vecchia auto. Perché Pearl è l’aspirante star alla quale si richiede l’X-factor (vedere per credere), ma è anche figlia e moglie di un rituale familiare tutt’oggi prescritto, destinata a seppellire aspirazioni e volontà dentro al cuore per “fare il meglio con ciò che ha.” E nel non rassegnarsi a questa condizione, è disposta persino a uccidere chi si frappone tra sé stessa e i suoi sogni. Come assolverla? Ma soprattutto: come non farlo?

La forza di Ti West sta nell’affidarsi completamente a Mia Goth per fare leva sull’empatia “sadica” dello spettatore, manipolando le sue percezioni al punto da spingerlo a parteggiare per la carnefice (lo rivelano le risate in sala nei momenti più macabri). West spinge le capacità della Goth oltre il limite, in un patto fiduciario che dalla sceneggiatura (scritta a quattro mani con l’attrice) passa al non frenarne mai la carica attoriale. Mia è la vera star dello show. E giocando con lo stile di musical come Mary Poppins e Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music), Ti West riesce a comporne una sorta di compendio perverso, mettendo sempre al centro la versatilità della protagonista, in un irresistibile viaggio umorale.

Nell’attuale revival retró dell’horror, Ti West si distingue per la seconda volta nello stesso anno, e con maggiore incisività, per un film che sa essere al contempo profondo e leggero, estremamente serio e divertente, misurato ed eccessivo. In un’edizione che fa della paura della morte, dell’espiazione e del senso di colpa i temi caldi della selezione, Pearl è la nota dissonante e scanzonata di Venezia 79, capace di omaggiare e al contempo capovolgere e sublimare i ruoli femminili nella storia dell’horror psicologico.