Di recente il critico francese Pascal-Alex Vincent ha definito Satoshi Kon un “illusionniste”, un mago: Perfect Blue è il corpo di questa magia, il miraggio di sogno e realtà colti nell'atto di amarsi e uccidersi, come nei più sfrenati versi di Lautréamont. Autore precocemente scomparso, molto imitato in occidente (celebri i “plagi” di Aronofsky e Nolan), Kon ha costruito in soli cinque lungometraggi un sistema estetico e filosofico di perturbante complessità:  una Dreaming machine (titolo del suo ultimo lavoro incompiuto) di ineffabile potere artistico e creativo.

Affine al potere rivelatorio di Bunuel e dei surrealisti, il cinema di Kon elude il senso razionale per lasciar emergere le densità dell'inconscio; i suoi film mettono al proprio centro la soggettività – dei personaggi quanto dello spettatore – e sovvertono i modi convenzionali della narrazione mediante ellissi, flashback, dilatazioni e contrazioni temporali. La realtà è elaborata da ricordi e immaginazione, acquisendo le forme del sogno.

Quando nel 1997 Kon viene convocato dal produttore Maryuama, dello studio Madman, è ancora un giovane mangaka e animatore affascinato dai disegni del suo mentore Katsuhiro Otomo. Maruyama è consapevole del talento di questo artista temperamentale, già autore (tra le altre cose) di un manga stupefacente (Kaikisen, 1990) dai colori liquidi e dolcemente allucinatorio. La proposta di Maruyama è la direzione di un anime tratto dal romanzo thriller Perfect Blue di Yoshikazu Takeuchi, ma Kon accetta solo a condizione di poter effettuare modifiche radicali all'originale. Insieme allo sceneggiatore Sadayuki Murai scrive una sceneggiatura abolendo la linearità temporale e trasformando il materiale in un incubo horror scaturito da una soggettività alterata e vulnerabile.

Perfect Blue – titolo enigmatico che racchiude uno stato d'animo, un blue malinconico e notturno – diventa così la storia di Mima, giovane idol che decide, a causa della pressione dei suoi agenti, di lasciare la musica pop per iniziare una nuova carriera d'attrice. Il ruolo nella serie Double Bind impone a Mima un drastico cambio di immagine: dalla presunta ingenuità e candore richiesti per esser parte del rigido e perverso mondo delle idol, la ragazza si trova a interpretare un personaggio fortemente sessualizzato in un contesto exploitation. Il passaggio diviene anche attraversamento di una soglia percettiva in cui Mima perde i contorni di se stessa, mentre la presenza minacciosa di uno stalker ossessivo infiamma ulteriormente le sue paure e i suoi sensi di colpa.

In soli ottanta minuti Kon crea un'esperienza di puro deragliamento onirico per lo spettatore, con una partitura precisa in cui i piani del reale si intersecano con visioni, incubi, immaginazioni. Fin dalla sequenza d'apertura, Kon ci presenta la psiche delicata della protagonista mediante un montaggio alternato in cui la scintillante esibizione sul palco come Tokyo Idol coesiste con episodi di vita quotidiana (il viaggio in metropolitana, la spesa al supermercato, il ritorno al grande e grigio condominio).

Mima è divisa tra immagine pubblica e vita privata, è una creatura letteralmente “in mano” ai suoi fan (un gioco prospettico pone la ragazza sul palmo del suo stalker, come le bambole rimpicciolite di The Devil-Doll di Tod Browning, 1936) e sfruttata dall'industria dello spettacolo. La realtà e la finzione si scambiano le battute: i dialoghi di Double Bind perdono senso per diventare formula rituale, vivere si confonde con recitare e viceversa. 

Di fronte allo smarrimento del pubblico Kon non offre appigli, ma intensifica l'esperienza ipnotica con jump cuts, effetti sonori di continuità tra sogno e realtà, uso metaforico del colore. Il bianco-innocenza investe di luce lo schermo, interrotto dal rosso sangue di misteriosi e cruenti omicidi. La suspence febbrile di Perfect Blue riluce di bagliori argentiani e vertigini hitchcockiane: Mima si sdoppia, vive due volte precipitando in una voragine psicanalitica in cui un super-io feroce e distruttivo la osserva da uno specchio, da uno schermo o riflessa sulla finestra.

Anticipando la futura schizofrenia identitaria generata da un web che moltiplica e falsifica il nostro io fino a dissolverlo, Perfect Blue è anche il film che consacra internet come dimensione parallela, luogo di fantasmi e di un altro da sé irriconoscibile. Qualche anno dopo, Kiyoshi Kurosawa condurrà una ricerca analoga nel film Kairo (2001).