Ancora qualche giorno di prima visione per il restauro di Todo modo. Abbiamo chiesto, come di consueto, a due collaboratori di Cinefilia Ritrovata di rivedere il film e leggerlo a modo loro. Ecco dunque le riflessioni che ne sono uscite:

La potenza di Petri è nelle sfumature. Attraverso esse riesce a trascendere generi, etichette, categorie, e a trascinare ogni volta i personaggi in un mood che trova nella parola “grottesco” la sua descrizione più adatta. È il grottesco il suo protagonista sempiterno. E in Todo modo è ovunque. Nel corpo nudo di Ingrassia, nell’inquadratura ravvicinata di un riporto disgustoso, nelle frasi ad effetto di Mastroianni, nei seni della Melato morsi tra sussulti di perdizione, nella rappresentazione claustrofobica degli spazi, nella presenza impalpabile della morte. Ma soprattutto nei gesti e nella parlantina di Volonté, il quale parodizza un Moro al tempo ancora vivo e potentissimo. Verrebbe a dire che Volonté lo volle interpretare nuovamente dopo la sua morte (Il caso Moro di Ferrara) quasi per scusarsi della caricatura che ne fece dieci anni prima. Ma non è questo il punto. Il punto è che con Todo modo Petri e Volonté prendono in giro la Democrazia Cristiana (e nell’esercizio dei rituali di purificazione ne viene pure suggerita la matrice massonica, il che fa immediatamente pensare alla P2) senza fare mai alcun nome. Voglio dire, è evidente a tutti di cosa ci si prende gioco a meno di non essere degli irrimediabili somari a Trivial Pursuit quando capitano domande sugli anni Settanta italiani. Tuttavia il personaggio di Volonté è semplicemente “il presidente” e il partito semplicemente “il partito”. È questo l’aspetto più interessante. Senza dire nulla Todo modo dice molto più di tante opere dagli intenti simili ma dal linguaggio molto più esplicito. Prendiamo Il divo, ad esempio.

Come un equilibrista il film di Sorrentino cammina lentamente sul filo che divide la farsa dal biopic. Se da una parte presenta la corrente andreottiana con un taglio western, dall’altra fa apertamente i nomi di Cirino Pomicino e soci. Ognuno con il proprio alias (come Leone vorrebbe) e le proprie mansioni (come Sorrentino vuole). Spesso però l’impressione è che si parli (letteralmente) troppo di ciò che concerne (presumibilmente o meno) la vita di Andreotti dimenticandosi di pungerlo a dovere attraverso una riduzione caricaturale in modo da presentarlo sotto una nuova luce. “Quando la satira riduce, non si limita solo alle dimensioni, ma cerca anche di sminuire la vittima sottraendole l’appoggio del rango, della dignità e dell’abito” (Matthew Hodgart). Questo ne Il divo non è molto presente e, anzi, spesso è proprio ad Andreotti che Sorrentino lascia l’ultima parola (la famosa intervista con Scalfari), egli pare conquistato dal suo fascino mefistofelico. Un errore nel quale può capitare di scivolare (anche Scorsese lo ha fatto con alcune scene di The Wolf of Wall Street) e il risultato è un film che pur facendo nomi e cognomi abbaia ma non morde. A differenza di Todo modo che nello schernire il proprio bersaglio è così cattivo da sfociare nello humour nero. Il divo è una tesina su Andreotti, Todo modo è Moro che chiede pietà. Il divo è didascalie, Todo modo è corpi. Il divo è parole, Todo modo è cinema.

Paraculaggine quella di Petri? Può darsi. Ma forse è stata proprio questa accortezza a permettergli di imbastire una satira così spietata. E soprattutto inattaccabile. Stando alle cronache, Andreotti ebbe a dire che Il divo “è molto cattivo, una mascalzonata”, suscitando ovviamente la soddisfazione di Sorrentino. Ma Andreotti non lo freghi facilmente e infatti ha successivamente dichiarato di non voler sporgere querele chiosando: “Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato, dunque..”. Dunque che se ne parli bene o male l’importante è che se ne parli. Spiace per Sorrentino ma se il bersaglio della tua critica così sfacciatamente esplicita reagisce parafrasando una massima di Wilde, c’è poco da fare, ha vinto lui. Ora immaginate se Moro avesse mai detto una cosa del genere sul film di Petri. Volete mettere la soddisfazione di poter rispondere: “Ma perché, lei crede che Volonté le faccia il verso? Suvvia, presidente, cos’è, ha la coda di paglia?”. L’ultima, fragorosa, catartica risata con Todo modo arriva infatti quando, a visione ultimata, appare la scritta “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”.

(Brando Sorbini)

Forzai le mani di Sciascia anche nel tono del film (…), e mi sembrò così, non soltanto di seguire un’indicazione di Sciascia (…), ma di evocare quel clima di farsa nerissima che si respirava e si continua tuttora a respirare in Italia” (Elio Petri, 1979).

Pare quasi di sentire l’odore di quella farsa nerissima, quando ci addentriamo insieme al gruppo di ministri, banchieri, imprenditori, capitanato da Don Gaetano (Mastroianni) e il Presidente (Volonté), negli antri lugubri di Zafer: il tanfo dello zolfo infernale pervade l’atmosfera della sede degli Esercizi Spirituali. Sì, perché Petri colloca nell’unico luogo per lui possibile la classe politica e religiosa che governava l’Italia all’epoca: sottoterra. Un luogo tetro, spettrale, labirintico. Un luogo in cui il corpo della politica viene rappresentato in tutte le sue ripugnanti forme. È proprio l’utilizzo espressionista che Petri fa del corpo, uno degli elementi per me più interessanti di Todo Modo. Il corpo ci appare come simbolo emblematico della natura subdola e amorale che caratterizzava la classe dirigente secondo il regista. Ci troviamo infatti di fronte a corpi e visi fortemente grotteschi e sgraziati: che sia il corpo di Volonté, dalle movenze striscianti e “fluttuanti”, che sia quello di Ingrassia, allampanato e mefistofelico. I corpi vengono mostrati in tutta la loro deformità estrinseca (e quindi intrinseca), che il regista ridicolizza senza pietà. Li riprende nelle pose più assurde ed imbarazzanti, seguendo i loro spostamenti, che richiamano alla mente goffe marionette. Questi corpi, proprio come gli ignavi nell’Antiferno, sembrano non trovare pace, correndo ora dietro il prete, ora dietro il Presidente, sempre alla ricerca di qualcosa. Corpi che bramano potere, ma incapaci di agire. Corpi che bramano lussuria, ma che si rivelano impotenti. Corpi che avanzano e corpi che arretrano. Ma, a differenza dei dannati danteschi il cui supplizio è destinato a non avere fine, i dannati di Petri, come afferma ad un certo punto Don Gaetano: sono morti che seppelliscono i morti. L’unico modo quindi per estirpare l’epidemia che si diffonde inarrestabile nel Paese è, secondo Petri, la distruzione totale e sistematica (todo modo para buscar la voluntad divina!) di tutti i corpi. Uno dopo l’altro, finché non rimarranno solo deformi sagome vuote.

(Barbara Monti)