Le schegge del pezzo di legno restano sotto la pelle di chi osa avvicinarsi al moloch collodiano. Non a caso, chi è riuscito nell’impresa di dare vita al burattino ha rinunciato al burattino stesso. Si veda alle voci Luigi Comencini e Suso Cecchi D’Amico, geniali nel ricorrere al legno per punire gli errori del bambino di carne e ossa. Ma, in fondo, anche a quella di Walt Disney, che nella forma dell’animazione sfumava i confini tra burattino e bambino. Pinocchio è fatto di materiale altamente infiammabile: il legno. Ma, come dice lo stesso protagonista al signor Tonno, il legno galleggia. Sarebbe disonesto sostenere che questo Pinocchio galleggi. E non solo perché ne si avvalorerebbe una cautela che in realtà non gli appartiene. Chi sceglie di affidarsi a quell’impressionante immaginario visivo non è certo il prudente illustratore di un romanzo impossibile da tradurre.

Per Matteo Garrone, l’appuntamento era inevitabile: Pinocchio è un’ossessione infantile, naturale chiave di lettura per capire un’intera filmografia, tappa di approdo e ripartenza di un autore arrivato qui al termine del decennio in cui ha esplorato, setacciato, ripensato il versante nero della favola (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman). Pinocchio è fatto della materia di cui sono fatti i sogni oscuri di Garrone, dal borgo di Geppetto che richiama la desolazione materica dell’orizzonte esistenziale del Canaro all’allegoria da reality della crudeltà contenuta nel perimetro pedofilo del Paese dei Balocchi.

Se a lasciare un po’ perplessi è la ricostruzione dell’intreccio che sembra preoccuparsi di segnare il traguardo del finale senza trovare nel frattempo un ritmo compiuto, del Pinocchio secondo Garrone affascina l’apparato visivo e poetico rappresentato da una galleria di maschere forse mai così esatte in un adattamento del capolavoro di Carlo Collodi. Più Comencini che Roberto Benigni, uno che è rimasto scottato dall’incontro maledetto con il burattino: uomini trasformati in bestie, animali troppo umani e al contempo troppo poco, Garrone spinge l’asfittico e realistico cinema italiano in un territorio altro dove fa esplodere l’artigianato necessario a rendere credibile la favola, mettendone in luce aspetti che erano stati sempre un po’ addomesticati.

Senza risultare anacronistico, Garrone racconta il più ottocentesco dei Pinocchio possibili, con lo sguardo mai edulcorato per accattivarsi le simpatie dei genitori, chiedendo al pubblico sulla carta “naturale” (quello infantile) di seguirlo in una messinscena che non ha paura di corrispondere a tutta la crudeltà del testo originale. Il martello lanciato al Grillo Parlante, l’immagine del burattino impiccato, la bava della Lumaca, i conigli neri becchini, l’asinello buttato in mare, la Volpe senza una gamba (la faccia di Massimo Ceccherini è tra le cose più eclatanti del film, al pari del mirabolante cameo del Gorilla Giudice di Teco Celio) sono tracce di un progetto creativo assolutamente spericolato. I conti spesso non tornano, nella sceneggiatura scritta dal regista stesso con Ceccherini (un altro toscano come Francesco Nuti folgorato da Collodi: Lucignolo al cinema e Pinocchio in teatro), la visione fantastica colpisce più di quanto convinca, ma ci sono almeno tre meriti indubbi.

Uno: anche grazie ai miracoli del truccatore Mark Coulier (spettacolari i volti delle marionette), Pinocchio ritrova il corpo di un bambino a cui crediamo subito, l’ottimo Federico Ielapi, nella cui recitazione tenera e sciancata intravediamo un autocontrollo stupefacente. Due: Benigni fa pace con i propri fantasmi, prende il ruolo di Geppetto che l’anagrafe gli avrebbe permesso già nel 2002 e recupera una terrigna e antica umanità regalando attimi emozionanti, dalla faccia della fame in osteria a quella dell’amorevole pazienza durante il restauro del burattino. Tre: se è vero che chi tocca Pinocchio resta con le schegge sotto la pelle, Garrone quelle schegge ce le fa vedere, trasmettendo così l’ossessione, il desiderio, il bisogno di fare – letteralmente: fare – un film imperfetto ma a cui era predestinato.