Harlem, anni 70. Se la strada potesse parlare racconterebbe dell’innocenza del ventiduenne afro-americano Fonny, incarcerato ingiustamente da un corrotto poliziotto bianco con l’accusa montata di aver stuprato un’immigrata di Porto Rico. Invece, l’onere della narrazione spetta alla fidanzata diciannovenne Tish che ricostruisce, attraverso una serie di flashback, la loro storia d’amore e i suoi tentativi, sostenuti dalla famiglia, di far liberare il fidanzato prima della nascita del bambino che hanno concepito.

Lessi inizialmente Se la strada potesse parlare, da cui Barry Jenkins ha tratto il suo terzo film, nella militanza dei miei vent’anni per recensire il primo adattamento cinematografico del libro, Al posto del cuore (1998) del francese Robert Guédiguian. Lo trovai eccessivamente sentimentale e privo di quella urgenza politica contro la discriminazione razziale e l’omofobia che mi avevano fatto amare altre opere di James Baldwin, lucido scrittore afroamericano espatriato in Francia e dichiaratamente omosessuale, come La stanza di Giovanni (1956), La prossima volta il fuoco (1963) e Sulla mia testa (1979). In seguito, ho imparato invece ad apprezzare l’esaltazione della militanza dell’amore e del sentimento che il romanzo teorizza come contrasto alla disillusione della politica. Scritto nel 1974, Se la strada potesse parlare risente, infatti, della fine della grande stagione dei diritti civili e degli omicidi dei suoi simboli: Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. La narrazione di Baldwin, ripresa in modo generalmente fedele da Jenkins, contrappone ai movimenti di massa i movimenti del cuore, la capacità di una famiglia di sostenersi in un contesto ostile e di sfruttare la rabbia per la discriminazione per rafforzare un rapporto d’amore.

Le modifiche di Jenkins al romanzo di Baldwin sono limitate ma significative e rientrano nel progetto del regista, già chiaro nel precedente pluripremiato Moonlight (2016): costruire narrazioni affermative della comunità afroamericana con un’agenda politica di classe, razza e genere progressista, senza trascurare però un’ideologia visiva che trasfiguri anche i dettagli più sgradevoli in una dimensione estetica. Da qui, per esempio, la scelta di alternare la narrazione filmica con l’inserimento di sequenze di fotografie in bianco e nero.

Fin dalla locandina, in cui il paesaggio urbano costituisce una parte dei volti innamorati di Fonny e Tish, il film, a differenza del romanzo, rappresenta Harlem non come un contesto ostile ma idealizzato, colto con ambienti, luci e posture che ricordano le stilizzazioni impressionistiche di Wong Kar-wai in In the mood for love (2000) e della tradizione melodrammatica americana da Douglas Sirk a Todd Haynes. Coerentemente, alcune delle asperità tipiche di Baldwin sono spuntate in favore del piacere visivo dello spettatore: l’ambivalenza dei sentimenti di Tish dopo il primo rapporto sessuale, in cui Baldwin mischia magistralmente dolore e piacere, spiritualità dell’amore e materialità dei fluidi corporei, è risolta nel film con l’esaltazione della plasticità dei corpi neri a sublimare l’atto della penetrazione.

In questo modo, il film esprime due visioni del mondo apparentemente contrastanti. Politicamente, emerge l’indignazione contro il razzismo e il maschilismo dell’America degli anni 70, la cui pesante eredità arriva fino a noi. Esteticamente, con la sua attenzione per gli oggetti, gli abiti e gli ambienti di quegli anni, la regia di Jenkins costruisce un senso di malinconica nostalgia che sembra contenere l’emergenza politica. Sostenuto dagli intensi primi e primissimi piani di un cast corale, Se la strada potesse parlare avvolge il pubblico, con i suoi ritmi dilatati e una sapiente colonna sonora, in un’aporia politica e sentimentale fino all’epifania finale. Come Guédiguian, Jenkins opta per un epilogo più definitivo rispetto al romanzo di Baldwin, ma con una coloritura più cupa rispetto al precedente francese, a sottolineare la necessità di una decostruzione dell’opposizione tra ragione politica e sentimento nel combattere la violenza e l’oppressione delle istituzioni bianche.