In uno degli interventi raccolti nelle Conferenze brasiliane, lo psichiatra Franco Basaglia scrisse che il problema più grande di una società che vuole considerarsi civile è accettare tanto la ragione quanto la follia. Quella attuale, invece, "accetta la follia come parte della ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che s’incarica di eliminarla".

Follia, ragione, società, eliminazione. Se avesse nominato anche la religione, si potrebbe confondere questo estratto con la sinossi di Rossosperanza di Annarita Zambrano. Curioso ma non sorprendente, trattandosi di un film che prova a prendersi una rivincita sulle ombre in cui è attecchita la nostra società, focalizzandosi sul trattamento riservato ai rampolli dell’alta borghesia italiana restii ad inserirsi nel canone.

Già, perché la regista di Dopo la guerra punta il dito contro quel decennio conclusivo del Novecento e di un modo di concepire il mondo. Non è un mistero, nemmeno una metafora. Zena (Margherita Morellini) inserisce nella sua console un vinile che li porta incisi sull’etichetta. E’ di un rosso intenso, come il titolo d’altronde che sovverte un’espressione consolidata nell’uso comune. Il verde è il colore delle croci luminose delle farmacie, del lasciapassare dei semafori e dei dispositivi in genere ma soprattutto della natura. Il rosso è il colore del divieto, della passione, del pericolo e del sangue. Cosa c’entra con la speranza?

In un mondo tendente all’uguaglianza asettica e pronto ad abbracciare il nuovo millennio, la speranza di Annarita Zambrano è forse quella di far vincere per una volta quello che abbiamo rimosso o confinato in edifici facilmente identificabili con Villa Bianca, luoghi in cui si è cercato di perseguire l’eliminazione riscontrata da Basaglia. Soffocare conduce alla morte, è risaputo, ma che bello sapere che sullo schermo si può allentare la morsa violenta e lasciare che i corpi degli oppressi reagiscano non soltanto narrativamente ma anche con il sangue.

Si tratta dell’unico modo per scalfire un immaginario granitico e forte di un oblio crescente con il passare del tempo. Le stilettate che Zena e i suoi co-prigioneri infliggono mentre sono sottoposti a quella che Michel Foucault chiamerebbe ortopedia sociale sono tutte rivolte ad Andrea Sartoretti, il volto più riconoscibile di un cast fatto di volti più che di personaggi. Quale che sia il trucco che lo caratterizza, rappresenta inequivocabilmente il responsabile di un potere rozzo e sordo, dal cui esercizio si configura l’abuso sistematico della razionalità. L’ordine è la norma a cui tendere, occultando e isolando qualsiasi minaccia.

Nel remix delle esistenze e del periodo che Zena ci offre, la speranza che offre conforto è l’inversione dei ruoli dettati dalla società. Se il mondo di quegli anni era l’inizio del grande manicomio in cui viviamo oggi, i pazienti si sostituiscono ai terapeuti e somministrano l’unica cura capace di incidere. Quel sangue neutralizzato in modo da esistere senza essere visto ma che in realtà, bollente, scorre copioso nei corpi di tutti.