Grazie ai capitali investiti dalla Paramount in seguito al successo di Nanook l’eschimese, nel 1923 Robert Flaherty volò in Polinesia per catturare su pellicola la vita degli abitanti dell’arcipelago di Samoa. Accompagnato dalla famiglia, rimase lì per più di due anni. Ne venne fuori quello che secondo molti è il primo documentario, o perlomeno il film per il quale fu coniato il termine. Moana non ebbe un ottimo riscontro da parte di pubblico, nonostante il valore del lavoro, nonché la spiccata tensione esotica tipicamente europea (in Italia, non a caso, circolò col titolo L’ultimo eden). Ad oltre ottant’anni di distanza, rievocare le cause di questa ricezione potrebbe risultare addirittura superfluo: e questo perché esiste Moana with Sound.

Negli anni Settanta, Monica Flaherty, figlia del regista, tornò nei luoghi del film per creare la colonna sonora che il padre, per ovvi motivi, non poté registrare. Sfidando la contrarietà della Paramount ma sostenuta dall’anziano maestro Jean Renoir e da Richard Leacock (già direttore della fotografia per Flaherty, poi autore di documentari capitali come Primary), la donna recuperò una modesta copia 16 mm e riuscì a presentare il film all’inizio degli anni Ottanta. Tornato nell’oblio, è stato riscoperto e restaurato recentemente.

Benché le immagini siano le stesse, Moana e Moana with Sound sono due film diversi. La presenza del sonoro, ricostruito a posteriori dalla figlia, dà al progetto del padre una compiutezza che il maestro poteva solo immaginare. Pioniere dell’antropologia visuale, consapevole di quanto la macchina da presa possa modificare la realtà documentata (una proto-docufiction in cui molti elementi sono volutamente anacronistici e le donne si mostrano nude), Flaherty sembra qui manifestare il bisogno disperato di un tessuto sonoro. Il suo occhio osserva i frammenti di vita quotidiana di un popolo dedito ad attività arcaiche e legato a rituali religiosi e pratiche magiche, ma il suo orecchio può ascoltare qualcosa che il pubblico di allora era ancora precluso.

Fragori di tempeste, segni della natura selvaggia ed incontaminata che sente l’improvviso bisogno di scuotere gli abitanti, ma anche onde che lentamente si perdono sul bagnasciuga e il suono dell’interno di una conchiglia. E soprattutto canti, cerimoniali, suoni che più d’ogni altro determinano l’identità del popolo. Emblematica la lunga sequenza del tatuaggio al quale Moana, il protagonista, si sottopone: se Flaherty riesce a trasmettere la centralità del rito d’iniziazione nella vita del personaggio attraverso un’immagine empatica, la versione sonora sa restituire, attraverso la cantilena del sottofondo e le voci circostanti, un contesto antropologico ed umano che completa il discorso.