"Il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. […] Esso 'sfida' il pensiero, perché cerca di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità".

Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2016

Ogni anno sul “fronte” del cinema di produzione statunitense emergono almeno due-tre titoli che potremmo definire a carattere catastrofico-terroristico: in questi film emerge sempre con forza non solo la presenza dell’America come detentrice del Bene assoluto e sempre e costantemente sotto attacco (si pensi alla serie Olympus Has Fallen con Gerard Butler). Dopo i catastrofici eventi dell’11 settembre il cinema americano si è interrogato e costantemente si interroga sul “diverso” in maniera molto più radicale e in direzione terroristica, sottolineando da un lato la sua vulnerabilità, dall’altro la sua continua voglia di rinascita (i titoli in questione mostrano sempre città o centri del potere che finiscono nel mirino del Male).

Ma il fronte europeo? Se nel vicino Oriente, con tratti definibili più intimisti, la cinematografia si interroga sul quale sia in effetti il “vero nemico”, quella italiana riflette in maniera, nemmeno tanto sporadica, sulla difficoltà di identificazione del concetto stesso di “avversario” (interno o esterno?) e della concezione del Male inteso come confronto con il “diverso”. Anche in tal senso si può provare a interpretare Profeti, nuova prova registica di Alessio Cremonini che, nonostante sia solo alla terza regia di un lungometraggio, presenta già uno stile altamente riconoscibile e delineato.

Sono passati dieci anni dal folgorante (e purtroppo poco ri-conosciuto) esordio di Border, che sicuramente è servito come sorta di canovaccio per l’attuale vicenda di una reporter italiana rapita insieme al suo staff da una cellula jihadista. La medaglia allora si ribalta: se nel film del 2013 il regista guardava “dall’interno” il fronte e la problematica degli estremisti, con Profeti si passa il confine (visivo, narrativo, semantico) e il nemico si trasforma in un elemento di difficile collocazione (fisica, rappresentativa, emotiva). In realtà la struttura narrativa, che può sembrare (solo in apparenza) meno caratterizzante rispetto al passato e che probabilmente oltre a Border risente anche della collaborazione del regista come sceneggiatore in Private (2004) di Saverio Costanzo (un’altra vicenda di particolare ed estrema “coabitazione”), fa da appoggio ad una tematica visivo-metaforica molto stimolante.

Il rapporto stretto che c’è tra ad es. tra “chi guarda” e “il guardato” è sempre più intrecciato a componenti di stampo voyeuristico e in evidente continua ascesa verso la ricerca non solo dello shock visivo, ma in primis psicologico. La protagonista (una entusiasmante e superba Jasmine Trinca) se all’inizio scruta le torture inferte ai suoi collaboratori attraverso un foro del pavimento (a mo’ di sala operatoria), una volta spostata nella casa che la ospiterà giocoforza modificherà (causalmente?) il suo metro di visione, rendendolo frontale. Lo sguardo, da pura passività divina scorsesiana, diventa attivo e diretto, a scrutare lo spettatore, ad auto regolarsi, a scegliere continuamente cosa, quando e come guardarlo.

Proprio lo spettatore, come la protagonista, è costretto a chiedersi continuamente quale sia la differenza tra vittima e carnefice e dove sia il confine tra bene e male. Il regista, seppur abbandonando le carte testimoniali di Sulla mia pelle (2018), lascia il rapporto forte con la verità documentale (gli atti della vicenda Cucchi) e realizza un lavoro (non tanto di finzione a pensarci bene) sempre su una vittima di sequestro, sempre forzata e altamente deturpante. Ma mentre nel precedente lavoro il corpo lentamente si deteriorava, in Profeti è la mente a trasformarsi, il corpo diventa strumento di verbalizzazione, di parola divina, di scontro ideologico. 

Il plurale del titolo è evocativo: il profeta è colui che “vede” il futuro e lo diffonde attraverso la parola: nel nostro caso però parafrasando un noto proverbio non “c’è una sola campana”, ma diverse voci da sentire, confondendo e portando lo spettatore a chiedersi continuamente: dove si nasconde la moralità? Questo diverbio si problematizza nella paradigmatica rappresentazione che il regista, con l’ausilio fondamentale alla fotografia dell’argentino Ramiro Civita (La ragazza del lago, Cosa voglio di più), fa della prigione.

Se in prima battuta la protagonista è in un enorme capannone e vede l’esterno senza barriere e senza perdere la speranza, una volta spostata nel bunker dove viene reclusa la luce e “lo spazio visibile” viene sempre maggiormente oscurato e diminuito, fino a rappresentare una sorta di gabbia (fisica e mentale) senza sbarre (in tal senso le continue aperture verso l’esterno sono enfatizzate come una sorta di luce abbagliante, mentre l’interno è sempre illuminato da fioche fonti di illuminazione). Gabbia che però compare anche all’esterno della casa, senza pareti, nella sua forma più nota e in cui vengono martoriati i prigionieri maschi catturati dagli estremisti.

C’è allora un’amara riflessione su cosa e come possa essere la prigionia: fisica (le gabbie di ferro) o mentale (le sbarre delle proprie ideologie)? Infine, questo scontro si svolge, come una sorta di duello teatrale (unità di luogo) tra due donne (Trinca e Isabella Nefar, altare perfetto e affascinente di uno sguardo cieco e obbediente) armate ognuna della propria incrollabile fede. L’una legata alla religione e l’altra nella certezza di poter avere la forza di distaccarsi dalla propria emotività: entrambe si scontrano (in bravura interpretativa pure) su terreni che riguardano tutte le sfere dei massimi sistemi (amore, famiglia, fede, politica, vita quotidiana), cadendo e vincendo continuamente, in uno scontro che (e qui non vogliamo dare nessuna anticipazione) forse non vedrà nessuna delle due vincere.

Il finale lascia in sospeso diverse domande e forse anche un leggero, amaro e sarcastico, sorriso sulle labbra. Stavolta senza verbo.