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“Profeti” e il confine della gabbia

Alessio Cremonini, seppur abbandonando le carte testimoniali di Sulla mia pelle, realizza un lavoro (non tanto di finzione a pensarci bene) sempre su una vittima di sequestro, sempre forzata e deturpante. Ma mentre nel precedente lavoro il corpo lentamente si deteriorava, in Profeti è la mente a trasformarsi, il corpo diventa strumento di verbalizzazione, di parola divina, di scontro ideologico. 

Venezia 2018: “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini

Alla prima grande occasione, Alessio Cremonini recupera la tradizione del cinema civile italiano – più Marco Risi che Francesco Rosi – e la fa incrociare col recente e prolifico filone della periferia romana. Attraverso la presenza di Alessandro Borghi, in un’interpretazione fortemente mimetica al limite del Metodo, Cucchi sembra uscire da Non essere cattivo, col suo carico di disincanti e tormenti da immolare sull’altare del biopic. Ecco, volendolo inserire nel catalogo del periferia-movie, si tratta del primo film biografico del filone, in un cinema, quello italiano, che ha pressoché appaltato questo genere alla televisione (due eccezioni significative: Il giovane favoloso e Nico, 1988), sottovalutandone le infinite possibilità di rielaborazione insite nel concetto “tratto da una storia vera” (pensiamo, tra i contemporanei, a Bennett Miller).