Con la distribuzione in prima visione della versione restaurata di Psycho, altro tassello del mosaico storico cinematografico del progetto Cinema Ritrovato al Cinema, ci troviamo di fronte a uno dei film più analizzati di sempre. Vediamo una ricca antologia critica intorno al capolavoro di Alfred Hitchcock.
Il produttore-regista Hitchcock si è immerso fino al collo nella bizzarria e sembra che si sia divertito un mondo a mettere insieme Psycho. Ci ha messo dentro sangue [...] una storia che riposa su motivazioni freudiane, e qua e là inserisce piccoli dettagli divertenti nell’intreccio che suggeriscono che tutto l’insieme non va preso sul serio. La Psyco-diagnosi, commercialmente, è questa: un intrattenimento inconsueto e di buon livello, innegabilmente hitchcockiano, e azzeccato per il botteghino. [...]
Perkins offre una performance trasognata notevolmente efficace nei panni del giovane posseduto. Gli altri recitano adeguatamente, con pari competenza. La sceneggiatura [...] offre solide fondamenta per il divertimento senza freni di Hitchcock. E se la mdp, sotto la direzione di Hitchcock, qua e là tende a sovraenfatizzare certi punti della vicenda, beh, si può perdonare.
Gene Arneel, “Variety”, 22 giugno 1960
Tutto è realmente pregevole, anche se non è esattamente il tipo di cosa da raccomandare alle anime sensibili. [...] Psycho è pieno di scherzi, rivoluzioni, pezzi di cattiveria che si penserebbero gratuiti se fatti da qualsiasi altro regista. [...]
Psycho è il film più morboso mai realizzato. È anche uno dei film tecnicamente più eccitanti degli ultimi anni [...]. Chiunque ami il gore, o Hitchcock, sarà soddisfatto da Psycho.
Ernest Callenbach, “Film Quarterly”, vol. 14, n. 1, autunno 1960
Per molti anni i critici britannici e americani hanno rimpianto i thriller inglesi ordinati e senza pretese del ‘vecchio’ Alfred Hitchcock, non ancora ‘corrotto’ dagli sgargianti mezzi tecnici di Hollywood. Bei tempi quelli di Il club dei 39, di L’uomo che sapeva troppo [1934] o di La signora scompare! Parallelamente a Parigi i ragazzacci dei “Cahiers du Cinema”, Claude Chabrol in particolare, andavano pontificando che erano stati proprio i successivi film americani di Hitchcock a consacrarlo come uno dei più grandi artisti dello schermo.
Un’analisi attenta di Psycho ci dice non solo che i francesi hanno ragione su tutta la linea, ma che Hitchcock deve essere considerato il regista d’avanguardia più audace in America oggi.
Oltre a far apparire i precedenti film dell’orrore come variazioni di Pollyanna, Psycho è anche un apologo fortemente simbolico sul mondo moderno come una pubblica palude in cui defluiscono i sentimenti e le passioni umane. Quelle che un tempo apparivano come impurità rispetto alla sua consolidata tecnica ‘dritti al punto’, ora conferiscono a Psycho e al resto della produzione hollywoodiana di Hitchcock un tocco personale e una profondità intellettuali assenti nei suoi classici del periodo britannico.
Psycho dovrebbe essere visto almeno tre volte da qualsiasi spettatore attento, la prima volta per la pura esperienza del terrore, e in questo sono assolutamente d’accordo sul fatto che solo un guastafeste patentato potrebbe rivelare la trama; la seconda volta per la commedia macabra insita nella costruzione del film; e la terza per tutti i significati reconditi e i simboli nascosti sotto la superficie del primo film americano dai tempi di L’infernale Quinlan a stare nello stesso rango creativo dei grandi film europei.
Andrew Sarris, “The Village Voice”, giugno 1960
Ipotizziamo che James Stewart esca dallo schermo della Finestra sul cortile, si sieda nella sala del cinematografo e diventi uno di noi, uno spettatore. I suoi appetiti di ‘voyeur’ sono alimentati nella scena d’apertura di Psycho: in pieno pomeriggio, la macchina da presa si introduce in modo indiscreto in una camera con le tende abbassate. E in questa camera una coppia, sul letto, si bacia, si abbraccia, manifesta una grande attrazione fisica. Da quel momento si sente frustrato, vorrebbe ‘vedere di più’ [...].
I sentimenti dello spettatore nei confronti di Janet [Leigh] sono un misto di invidia e disprezzo. Una donna che accetta di stare in questa squallida camera d’albergo, in pieno pomeriggio, nella cittadina di provincia in cui vive, non è degna di rispetto. Lo spettatore può pertanto trasferire su di lei le sue motivazioni più bieche, incluso il desiderio inconscio – che non osa realizzare in prima persona – di rubare. In effetti, una volta rientrata in ufficio, Janet assiste a un’importante transazione di danaro. Lo spettatore, che incomincia a essere annoiato dalle scene di vita quotidiana di un ufficio, desidera che accada qualcosa. E poi (perché no?) Janet tiene i soldi per sé... Ora è sulla strada. Un poliziotto in motocicletta le intima di fermarsi... Ci auguriamo che la donna riesca a farla franca e facciamo il tifo per lei. Ma questo pensiero altruistico non è che una copertura per un crimine che vorremmo commettere noi stessi, ma che abbiamo delegato a Janet Leigh. Dietro a una cortina di comprensione si cela un desiderio che sarà esaudito: il poliziotto smette di inseguirla [...].
Ora che noi (e Janet Leigh) abbiamo allontanato l’idea di farla franca, la donna diventa preda di ogni genere di delirio. È abbandonata alle forze notturne ed è incapace di tollerare luci intense... Così ci sentiamo sollevati quando entra nel motel. Ma l’aspetto strano e misterioso del luogo, e del suo proprietario, scatena in noi un’angoscia indistinta. Presagiamo il pericolo, tanto più quando Janet Leigh si ritrova sola, nella sua stanza con la finestra spalancata, mentre cerca un posto sicuro in cui nascondere i suoi soldi (i nostri soldi). E dato che abbiamo tutte le ragioni per essere spaventati, la sua conversazione con Perkins sembra dilungarsi troppo. Desideriamo vedere che la nostra paura è giustificata. Il nostro desiderio di ‘vedere’ diventerà ancora più intenso: Perkins è come noi, e guarda la sua cliente mentre si spoglia. Avverrà uno stupro o un furto? No, qualcosa di più terribile. Perché il nostro desiderio e la nostra paura non sanno ancora su quale oggetto reale posarsi; sono ancora confusi, così come confusa è la forma che assumeranno – una sorta di ombra, di ectoplasma... Questa ‘forma-forza’ compie poi il suo crimine... un crimine che Perkins, il figlio rispettoso, cerca di occultare. E mentre lo fa, vediamo tutto attraverso i suoi occhi. Lo guardiamo fare i suoi sordidi lavori domestici... Perkins getta tutto in una pozza d’acqua stagnante. L’automobile affonda nell’acqua per metà. “Speriamo che scompaia”, pensiamo. Poi affonda, inesorabilmente. Tiriamo un sospiro di sollievo. L’oscurità – o la nostra coscienza – ha inghiottito per sempre la nostra complicità di quel furto. E siamo divenuti complici di un crimine.
Jean Douchet, “Cahiers du cinéma”, n. 113, novembre 1960
Ognuno dei suoi film ripropone [...] una sorta di gioco di abilità che l’autore ingaggia con se stesso e con il pubblico [...]. Questo sterile gioco, questa sorta di assurda scommessa con se stesso, è stata portata in Psycho veramente agli estremi: tutti gli espedienti del mestiere, tutte le trovate più note per suscitare la emotività del pubblico, tutto il repertorio più consueto dei colpi di scena e degli effetti dei gialli e dei polizieschi, è sfruttato dall’autore con la manifesta intenzione di conseguire un risultato dal quale sono categoricamente escluse [sic] ogni indagine sulla umanità e sulla verità espressiva dei personaggi e sulle situazioni narrative che costituiscono l’impianto strutturale del film. Questa volta, si direbbe che Hitchcock [...] non sia indietreggiato nemmeno di fronte ai più spettacolari e macabri effetti, quasi convinto della sterilità in cui il suo gioco rischiava di incorrere nelle ultime opere realizzate. [...] Nessuna ricerca di umanità nei personaggi, né di una verità drammatica nelle situazioni narrate, nessuna indagine di una condizione umana o di un ambiente storico: soltanto il futile, accademico, e spesso irritante gioco di intelligenza condotto fino allo spasimo, e sostenuto, purtroppo, dai più accademici e logori convenzionalismi. [...] In Psycho si giunge addirittura ai travestimenti assurdi dei personaggi a cui l’autore vorrebbe conferire una sorta di giustificazione psichica che appare del tutto gratuita. [...] La debolezza strutturale del film [...] è aggravata dal difetto, elemento davvero inconsueto nei film di Hitchcock, di una sceneggiatura piuttosto affrettata e sciatta.
Nino Ghelli, “Rivista del Cinematografo”, a. XXXIII, n. 12, dicembre 1960
Psycho cela, dietro i meandri di una storia misteriosa particolarmente abile e particolarmente impressionante, una riflessione straziante sull’ossessione fondamentale del cinema hitchcockiano: la relatività del bene e del male in ciascuno di noi. [...] Psycho è la storia di persone che, non avendo il coraggio di vivere, devono trovare quello di morire, fisicamente o moralmente. [...]
L’universo disperato e sovente sordido di Alfred Hitchcock ha trovato qui una delle sue espressioni più ammirabili. Mai l’autore di L’ombra del dubbio si era spinto così lontano nell’esprimere la sua famosa teoria del transfert. Per Hitchcock, ciascuno [...] porta in sé una parte di bene e una di male. La sua disposizione naturale lo porterebbe a dare libero sfogo ai suoi impulsi malvagi, che lo divorano, ma l’organizzazione sociale della vita lo costringe pressoché sempre a dissimularli [...]. Di conseguenza, quando compie qualcosa di malvagio, si deve convincere che a farlo non sia stato lui ma qualcun altro, un suo alter ego. [...] Hitchcock si spinge questa volta più lontano ancora, perché questa volta arriva a chiedersi se il male non sia l’unica direzione in cui un essere umano può davvero realizzarsi. [...]
Mi imbarazza parlare della regia di Psycho perché mi sembra di partecipare alla tradizionale quanto quasi sempre assurda separazione tra contenuto e forma. Poiché la regia di Hitchcock è in qualche modo sempre plasmata sulle idee che vuole esprimere, e non c’è effetto di ‘suspense’, per quanto apparentemente gratuito, che non abbia alla fine dei conti la sua giustificazione morale [...].
Come si può immaginare, la direzione degli attori in Psycho è la più perfetta e la più riuscita di tutta la carriera del geniale Alfred, da questo punto di vista eccezionalmente brillante.
Yves Boisset, “Cinéma”, n. 52, gennaio 1961
Non pretendiamo l’arte a tutti i costi, e siamo in grado di apprezzare il divertimento intelligente che il regista sa puntualmente ammannirci ogni anno; ma qui ciò che difetta è quella sua personale misura di gusto, fatta un po’ di ‘humour’ e un po’ di ‘thrilling’, che rende appunto intelligenti i suoi problemini polizieschi. Lui [...] in Psycho dimentica il suo stile per caricarsi di tutto il bagaglio ‘nero’ [...]: morbosità, violenza, complessi sessuali ecc. La forza del narratore, però, rimane, e solo Hitchcock poteva tenere per la prima delle due ore lo spettatore avvinto senza offrirgli niente, montandogli attorno la tela di ragno di un incubo sottile proprio perché indefinito. Eccellente, come sempre, la resa che ottiene dagli attori.
Ernesto G. Laura, “Bianco e Nero”, n. 1, gennaio 1961
“Per comprendere Psycho – ha dichiarato in Francia Alfred Hitchcock – occorre un’eccezionale dose di humour”. Strano discorso, almeno in apparenza, ché la prima, sgradevolissima impressione data dal film è quella di un Hitchcock che abbia cominciato a prendersi sul serio: senza la benché minima traccia di quel salutare tocco di umorismo che gli aveva permesso di salvare le sue pellicole più improbabili, e con il ricorso al più vieto repertorio dei film dell’orrore, proprio nel modo attualmente in voga dei vampiri e dei rigurgiti di Boris Karloff (c’è il motel sinistramente solitario, non manca un cadavere imbalsamato a metà, e scorrono ettolitri di sangue). Pur se il film ci sembra il peggiore tra quanti Hitchcock ne abbia realizzati ultimamente, dobbiamo peraltro ammettere che il regista vi ha svolto fino in fondo, in ogni sua implicazione, un tema che andava accarezzando da diverso tempo: la creazione di un ‘protagonista immaginario’ e l’identificazione fra questi e il protagonista reale. [...]
Un caso clinico, dunque, attorno ai quale e in funzione del quale Hitchcock mobilita un bagaglio di facili ‘cifre’ pseudo freudiane: gli uccelli impagliati, le coltellate come sostituzione dello stupro, la madre nel sottosuolo. Ma se l’orrore, l’anormale e il patologico predominano totalmente, se i personaggi ‘sani’ appaiono, per la prima volta in Hitchcock, privi di qualunque rilievo (si veda il peso soltanto fisico di Sam, o l’inesistenza di Lila), non si può nemmeno dire che il film costituisca uno studio coraggioso e serio di tale ‘caso’: unica preoccupazione dell’autore è al contrario quella di imbrogliare le carte, di tenere la verità segreta fino all’ultimo istante, di concentrare ogni attenzione sulla madre di Norman – che non esiste – anziché su Norman.
Guido Fink, “Cinema Nuovo”, a. X, n. 149, gennaio-febbraio 1961.
Una notte oscura al Bates Motel, nel film horror che ha ridefinito il genere collocando il mostro dentro di noi. Il capolavoro di Alfred Hitchock unisce una brutale manipolazione del principio di identificazione del pubblico con uno stile visivo incredibilmente denso e allusivo per creare il film più moralmente inquietante mai realizzato. L’idea di Hitchcock nei panni di un moderno Conrad si basa su questa spietata indagine del “cuore di tenebra”, ma il film è tipicamente hitchcockiano nel suo posizionamento della figura materna divina. È un lavoro profondamente serio e profondamente inquietante, ma Hitchcock, con la sua caratteristica perversità, ha insistito nel definire nelle interviste il suo film “divertente”.
Dave Kehr, “Chicago Reader”, 24 maggio 1985
Chirurgo impietoso di interni e ambienti americani, Alfred Hitchcock fa del motel il vero cuore di Psycho. Non tanto la casa aguzza, di orrore gotico, dove Norman Bates vive con sua ‘madre’, ma proprio quel motel appartato e “completamente orizzontale” (F. Truffaut) i cui clienti si fanno sempre più rari. […] Prima di qualsiasi traccia di sangue, prima di qualsiasi lampo di follia, la storia dell’anonimo motel Bates è già una storia di violenza.
Alla normalità apparente, stagnante, del motel di Psycho si oppone una struttura che si potrebbe definire di crescendo musicale. Truffaut, nella sua celebre intervista a Hitchcock, forzando appena i termini ha descritto la forma di Psycho come “una scala dell’anormale: innanzitutto una scena di adulterio, poi un furto, poi un delitto, due delitti, e infine la psicopatia”. Il livello della violenza cresce implacabile, una violenza che però non è un dato del destino o l’esito d’una antica colpa, come nella maggior parte dei film dell’orrore. L’idea, in Psycho, è che basta una lieve deviazione nelle relazioni umane (deviazione di percorso, di comportamento, di desiderio) perché esse conducano immancabilmente alla distruzione. Le battute che i personaggi si scambiano in questo film sono d’una banalità carica di dolore.
Psycho fa di ogni spettatore un voyeur complice di quanto sta accadendo, prima del furto di Marion e poi del primo delitto di Norman, e in questo modo lo rende oscuramente cosciente dei propri impulsi inconfessabili. Diventare tutt’uno con l’occhio di Norman che spia Marion attraverso il foro praticato nel muro, sua personale scorciatoia verso la sfera sessuale, significa essere chiamati a condividerne l’impulso erotico represso e deviato, e la grottesca perversione cui ha sottoposto il ruolo materno: raramente questo mito americano, fondamento sacro d’una società appunto matriarcale, è stato tanto brutalmente maltrattato. Norman Bates, schizofrenico grave, diventa ‘caso’ universale e la visione del film si fa di conseguenza più sociale, più duramente concreta. Psycho svela il caos appena sotto la superficie levigata della civiltà, la barbarie ancora una volta e come sempre tra di noi, dentro di noi.
Psycho è un film agghiacciante fin dalle prime immagini che ci restituiscono una città estesa, glaciale, nella fredda successione scalare d’un documentario scientifico: dal generale al particolare, dal più lontano al più vicino, un grattacielo, una finestra, l’interno di una camera d’albergo. Gli indici temporali che appaiono nell’immagine (le due e quarantatré d’un pomeriggio feriale) sono pure ‘scientifici’, e producono un senso di lontananza abissale. Una scena d’amore in pieno giorno lavorativo, il composto squallore d’una camera d’albergo, il senso di dissimulazione sono il primo anello della catena di disagio e di devianza che condurrà al disastro. Costato ottocentomila dollari, girato con una troupe televisiva per velocizzare i tempi, il film sarebbe diventato il più clamoroso trionfo commerciale d’una carriera, come quella di Hitchcock, non certo avara di successi; con il tempo, anche la critica lo avrebbe annoverato tra i capolavori del regista.
Peter von Bagh, Psycho, in Enciclopedia del cinema Treccani – I film, 2004