Da sessant’anni, Psycho (1960) provoca quella “emozione di massa” che Hitchcock dichiarava essere il suo obiettivo nella lunga intervista a François Truffaut. Il film ha fatto ininterrottamente emergere dal macero del Bates Motel le nostre nevrosi, le nostre paure e le nostre speranze represse, continuando a possedere l’immaginazione di chi crea e di chi fruisce cinema. Ha contribuito a cambiare non solo la grammatica del genere horror ma anche la sua storia produttiva e la sua commercializzazione. Psycho ha generato svariati sequel, un omonimo remake “inquadratura per inquadratura” di Gus Van Sant nel 1998, una serie televisiva di cinque stagioni, Bates Motel (2012-2017), e Hitchcock (2013) di Sacha Gervasi, un film sulla rischiosa realizzazione di Psycho e il trionfo commerciale che seguì la sua uscita nelle sale. Registi dalle caratteristiche estetiche e ideologiche più diverse, da Brian De Palma e John Carpenter a Xavier Dolan, hanno ideato omaggi e citazioni più o meno diretti.

Psycho rappresenta anche un momento importante all’interno della carriera di Hitchcock, dopo l’insuccesso de La donna che visse due volte (1958) e il ritorno ad una formula più consolidata e più riconoscibilmente “Hitchcock” di suspense, romanticismo e ironia in Intrigo Internazionale (1959) che ricevette il plauso di critica e pubblico. Come La donna che visse due volte, Psycho si allontana da questa formula abbracciando invece il genere horror e respingendo ogni tentativo di rassicurare gli spettatori, non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche stilisticamente, rifiutando una chiara chiusura narrativa. Fin dalla sequenza iniziale, che, da una panoramica di Phoenix, si introduce in una camera d’albergo dove troviamo Marion e il suo amante Sam, il pubblico diventa voyeur, successivamente condividendo questa posizione con Norman dallo spioncino del suo ufficio fino alla soggettiva sul corpo di Marion nella celebre e controversa scena della doccia.

Gli altri personaggi contribuiscono alla confusione del pubblico su chi scegliere come punto di vista privilegiato sulla narrazione. Infatti, Marion Crane, lei stessa piena di nevrosi e con una natura criminale sotto l’aspetto di tranquilla segretaria, scompare dopo poco più di quaranta minuti, scelta radicale per un personaggio interpretato da una star (Janet Leigh). La sorella Lila (Vera Miles) è un doppio di Marion, un motivo riproposto insistentemente dal film con un costante gioco di specchi e riflessi, quindi con tutte le sue potenziali problematiche. E l’amante Sam Loomis (John Gavin) emerge come un uomo senza troppa iniziativa, un prototipo di maschio muscoloso ma che necessita della guida di una donna per agire.

Con questo ribaltamento di convenzioni e con numerose scene problematiche per il visto della censura, Hitchcock fu costretto a produrre il film di tasca sua con la Paramount che accettò solamente di distribuire il film. Il regista fu abile a trasformare questo potenziale rischio in un vantaggio reputazionale, subito colto da Andrew Sarris che, dalle colonne del Village Voice, invitava ad andare a vedere Psycho almeno tre volte. Da entertainer Hitchcock si promuoveva a auteur, unico responsabile per la creazione artistica, paradossalmente proprio per un film che, mentre in produzione, veniva bollato come slasher e volgare. Mentre annunciava a tutti un cambiamento di direzione nella sua produzione artistica, Hitchcock rassicurava il suo pubblico rimanendo lui stesso un elemento centrale nella promozione di Psycho.

Un messaggio registrato dal regista avvertiva il pubblico che non sarebbe stato ammesso a spettacolo iniziato e intimava di non rivelare il finale. Hitchcock compare anche come personaggio unico del trailer in cui guida i futuri spettatori per le stanze del Bates Motel, riconducendo così il film alle sue produzioni televisive. Questa combinazione di innovazione e richiamo alla tradizione hitchcockiana si rivelò vincente, in quanto richiamò sia spettatori più giovani attratti dall’aspetto horror che i tradizionali fan di Hitchcock.