In un’intervista apparsa su Filmcritica nel gennaio del 1969, Jean-Luc Godard ha detto che i giovani registi farebbero dei film più divertenti se girassero in provincia. Pare che Paolo Virzì al suo esordio cinematografico abbia inconsapevolmente obbedito all’auspicio dell’autorevole cineasta francese, teorizzato nel contesto turbolento del ’68. La bella vita  è infatti una commedia di ambientazione provinciale (Dimenticare Piombino era il titolo originario) che pone al centro la collettività, la storia, l’annuncio di una nuova epoca. Siamo nel 1992, l’anno di Tangentopoli, della “discesa in campo” del futuro Popolo della Libertà: qualcosa in Italia sta per cambiare.

Presentato a Venezia nella sezione Panorama Italia, la pellicola esce nelle sale nel 1994. Virzì gira anche nella sede dello storico stabilimento siderurgico della cittadina livornese. Non ha intenzione di fare un film dichiaratamente politico, ciononostante mette in piedi una storia dolceamara che si fa specchio di una società in trasformazione. Gli altiforni rischiano di chiudere per sempre; gli operai sono in sciopero. Privatizzare l’azienda significa mettere in cassa integrazione i lavoratori, far correre loro il rischio di un licenziamento. Partendo da una materia tutt’altro che conciliante, la profonda crisi d’identità della classe operaia funziona come il tasto di accensione che dà avvio alla commedia, ma è solo passando attraverso il dramma individuale dei protagonisti che essa diventa riflessione, sguardo vigile sugli sconquassi della realtà.

Così, la vicenda storica infonde un certo grado di complessità alla narrazione senza mai soffocarne i tratti più spensierati. Virzì sceglie per il suo racconto tanti volti che saranno poi amatissimi dal cinema e dalla tv italiana: da Sabrina Ferilli, che per la prima volta si misura con un dialetto che non è il suo, a Massimo Ghini nel ruolo di un little show man, un poco furbo e squattrinato. Bruno, un convincente Claudio Bigagli, è un operaio che rischia di perdere il posto. Sposa la bella Mirella, cassiera in un supermercato. La vita matrimoniale prosegue senza intoppi tra la tranquillità delle mura domestiche, l’amore e le prime difficoltà lavorative di Bruno. Durante uno spettacolo organizzato dagli operai dell’acciaieria, Mirella incontra Gerry Fumo, l’idolo televisivo di una rete locale.

Tra i due scoppia la passione. Mirella non sembra voler cedere alle avances dell’aitante presentatore, ma l’attrazione verso ciò che le appare come possibile fuga dalla monotonia è forte e decide perciò di assecondarla. Ecco che le effimere illusioni generate dal piccolo schermo, simbolicamente contenute nel personaggio di Gerry Fumo, irrompono nella coscienza del singolo. Con la promessa di un’esistenza più spensierata, l’inganno che lo show mette in scena, all’alba dell’esordio su scala nazionale delle emittenti private, irretisce e ammalia, seminando una visione distorta della realtà, della politica, dell’impegno civile.

Se Bruno rappresenta il passato con tutta la sua serietà, Mirella è la metafora di un’epoca in cui i telegiornali subiscono il calo dell’audience quando mandano in onda i servizi sulla lotta operaia. Lo spannung si verifica con la separazione infelice dei due coniugi; i fili della trama paiono poi ricostruire una nuova situazione di equilibrio ma l’epilogo lascia lo spettatore di fronte a una circostanza del tutto inaspettata. Pur essendo un’opera prima, La bella vita mostra una sperimentazione umoristica che procede senza sbavature: chiara è l’intenzione autoriale di portare sullo schermo quel sentimento del contrario che vuole restituire alla finzione un valore morale entro lo spazio dello spettacolo inteso, prima di tutto, come evasione.

Planando tra l’alto e il basso, il film è un degno erede della grande commedia all’italiana; i toni del drammatico appaiono smorzati quando, nell’intreccio narrativo e nelle peculiarità dei personaggi, raggiungono la misura di un’apparente leggerezza. Paradigmatico in questo senso è Gerry Fumo; caricaturale innanzitutto nel nome. Nella sceneggiatura firmata da Francesco Bruni, che collaborerà con Virzì nel successivo Ferie d’agosto (1996), in Ovosodo (1997) fino a Il capitale umano (2014), le figure dell’operaio, della cassiera e del presentatore televisivo accolgono, in una chiave non ancora collaudata, le caratteristiche umane e ideologiche che saranno ricorrenti nei futuri soggetti conferendo all’intera filmografia del regista toscano, forte della lezione del maestro Furio Scarpelli, una riconoscibile fisionomia. Certamente si tratta di una pellicola importante non soltanto perché segna l’ingresso sulla scena del cinema italiano di uno degli autori che meglio ha saputo interpretare i conflitti della contemporaneità ma anche perché è stata indebitamente dimenticata.

Gli spettatori che l’hanno vista all’epoca della sua uscita si contano sulle dita di una mano, ma si spera riesca, dopo anni di oblio, a circolare finalmente come merita, dopo il sapiente restauro della Cineteca di Bologna a cui lo stesso Virzì ha collaborato. Il titolo sembra evocare la sentenza sveviana per cui la vita non è bella ma quantomeno originale, cosicché, se la si vuole bella a tutti i costi, altro non è che pura illusione.