Dopo il successo di critica del suo lungo d’esordio, Mediterranea, Jonas Carpignano rimane fedele ai suoi personaggi, ai suoi ambienti, alla sua precisa e personale idea di cinema. Un cinema della macchina a mano, della fotografia sporca, del pedinamento e dell’aderenza al reale, da raccontare con lo sguardo lucido e disincantato di chi non vuole giudicare, ma portare alla luce una porzione di mondo dimenticata. E si dà il caso che questa porzione di mondo, non troppo distante dalla Rosarno nelle cui strade prendevano vita i protagonisti di Mediterranea, è la “Ciambra”, il campo rom nei dintorni di Gioia Tauro dove, come ogni etnografo che si rispetti, il giovane regista italoamericano si trasferisce e si apposta, in attesa di poter impressionare su pellicola il miracolo dell’osservazione partecipante, di catturare un microcosmo con i suoi abitanti e le sue leggi.
L’incipit è crudo, violento, di quelli che ti vogliono rovesciare addosso, senza sconti, tutto il degrado e la marginalità: bambini analfabeti, che fumano e che rubano, baracche di lamiera, e un italiano reso tanto irriconoscibile da implorare i sottotitoli. Ma poi, su quest’impietoso ritratto di disagio – che sarebbe materiale perfetto per la parabola gangster, il racconto noir, ma anche solo il pietoso spettacolo dell’altrui miseria –, Carpignano trova la grazia e l’equilibrio, e innesta la sua delicata favola di formazione: da luogo dell’alterità irriducibile, della messa in scena di un gap culturale incolmabile, la Ciambra diventa così il teatro del coming of age di Pio Amato, 14 anni, che nello spazio tra i titoli di testa e quelli di coda, mentre papà e fratello maggiore sono in carcere, deve trovare la forza di diventare grande.
Mentre sullo sfondo prende vita il ritratto della comunità rom, dei suoi rapporti con la mafia e con gli immigrati di colore, A Ciambra si risolve allora in un unico stremante rito di passaggio, nella scelta dolorosa del proprio posto nel mondo. “Siamo noi contro tutti”: le parole del nonno-patriarca hanno la severa assertività delle dichiarazioni testamentarie dei mentori (e infatti, come tutti i mentori, poche scene dopo il nonno se ne va), e costringono il nostro giovane protagonista a decidere una volta per tutte da che parte stare: ma scegliere non è così facile, perché quella di Pio è un’identità frammentata e sospesa, come quella di tanti, tra infanzia ed età adulta, tra cultura italiana e cultura rom, tra nomadismo e sedentarietà.