Davanti alla macchina da presa, George Méliès inscena uno dei suoi trucchi. È con questa immagine che Martin Scorsese apre il documentario sul leggendario tour di Dylan, Rolling Thunder Revue. Il collegamento tra Méliès e il musicista non è però immediato. Il regista vuole forse suggerire che quanto vedremo in seguito è un abile camouflage tra realtà e finzione? Al celebre Gerde’s Folk City nel Greenwich Village, la poetessa punk Patti Smith declama un suo pezzo in stile Beat, mentre la chitarra elettrica si insinua tra le sue parole. Dylan, tra la folla, osserva con interesse. Siamo alla vigilia del Rolling Thunder Revue e l’aria è elettrizzante.

Un gruppo di artisti parte all’insegna dell’avventura, in un viaggio alla riscoperta dell’America e di quei valori che sembrano essersi dissipati nelle nebbie del Vietnam. È il 1975 e la nazione ha osservato, attraverso gli schermi televisivi, la caduta di Saigon. Si è conclusa una guerra lunga 20 anni, che ha cambiato per sempre il volto dell’America: conosciuta un tempo come la terra dei sogni, ora quegli stessi sogni si sono infranti. “Hey Mr Tambourine Man play a song for me, I’m not sleepy and there is no place I am going to”, per ritrovare l’America, quella reale, Mr Tambourine Man esplora il New England, portando le sue storie nelle città di provincia, dove i desideri sono lontani e la realtà incombente. Quei luoghi remoti che conosciamo grazie ai romanzi di Kerouac e che faranno la fortuna di Springsteen. Quando il circo del Rolling Thunder Revue arriva in remote cittadine, gli abitanti non credono a quanto si trovano di fronte. Nel film, c’è un’immagine bellissima di una ragazza che al calare del sipario, si lascia andare ad un pianto liberatorio: nonostante la desolazione, c’è ancora qualcosa in cui credere. Qualcosa che, come sottolinea il drammaturgo Sam Shepard, intervistato prima della sua scomparsa, si chiama rock ‘n’ roll.

Scorsese gioca con il materiale a disposizione offrendoci da una parte un documentario sul tour di Dylan e dall’altra (ma questo lo scopriremo solo con la conclusione della pellicola) un film con personaggi fittizi. Attraverso filmati d’epoca seguiamo le tappe del tour di città in città, mentre vengono introdotti i membri di questo teatro itinerante: la violinista Scarlet Rivera, Allen Gingsberg, Joni Mitchell, Ramblin’Jack Elliot, Roger McGuinn, Anne Waldman, Mick Ronson e naturalmente Joan Baez. “Avrei potuto cantare con Joan anche nel sonno” commenta oggi Dylan “mentre dormo sento la sua voce”. Nel diario del tour scritto da Sam Shepard, il drammaturgo racconta un episodio avvenuto a Springfield nel Massachusetts, dove una gitana regalò a Joan Baez un abito nuziale. Nel film vediamo quanto avvenne in seguito: Baez e Dylan seduti al bancone di un bar si confrontano come forse non avevano mai fatto prima. Dopo essersi complimentati a vicenda sul modo di cantare e scrivere canzoni, Dylan dichiara il suo dispiacere riguardo al matrimonio della Baez; “te nei sei andato per primo e ti sei sposato senza dirmelo” risponde la cantante. È un momento commovente, che sottolinea il rapporto di stima, ma anche di occasionale conflitto tra i due musicisti.

Allen Gingsberg è un’altra figura fondamentale nella vita di Dylan. I due visitano la tomba di Kerouac a Lowell, dove leggono dei versi da Mexico City Blues. In un toccante passaggio, Gingsberg recita il componimento Kaddish, dedicato alla madre, di fronte ad una platea di eleganti signore borghesi, immagine dell’America tradizionale. Alcune appaiono notevolmente colpite dalle potenti parole del poema. Nel 1976, Dylan venne a conoscenza della vicenda di Rubin “Hurricane” Carter: l’uomo era stato incarcerato per un triplo omicidio che non aveva commesso. Dylan dedicò all’episodio una delle sue più grandi canzoni di protesta, Hurricane, dall’album Desire. Scorsese mostra l’esecuzione dal vivo del brano: Dylan con il suo travestimento da gitano moderno e il volto dipinto di bianco canta, come già aveva fatto in passato, le ingiustizie perpetrate dagli uomini. Dylan, l’impenetrabile, di cui intravediamo il lato più fragile solo quando, durante una visita alla riserva indiana di Tuscarora, gli viene conferita una medaglia.

Ed è proprio per contribuire al velo di mistero che da sempre avvolge il menestrello di Duluth, che Scorsese camuffa la realtà, introducendo nella storia personaggi inventati: Van Dorp, il regista che tenta di realizzare un film sul tour non è mai esistito e la testimonianza di Sharon Stone è pura fantasia. Il produttore del tour, anch’esso un personaggio fittizio, diventa invece il villain di turno, che preferirebbe trasformare il Rolling Thunder Revue in una macchina da soldi, piuttosto che in un’esperienza intima e riconciliante. Il tour di Dylan - come è lui stesso a dichiarare sul finale - fu finanziariamente disastroso. Ma dal punto di vista umano divenne un trionfo. Il musicista donò ai giovani quello che cercavano: un senso di comunità e di unione nel quale ritrovare se stessi. E i musicisti che parteciparono, rimasero inevitabilmente segnati.

Con Rolling Thunder Revue, Scorsese realizza un prezioso documento a metà tra fiction e realtà, nel quale confluiscono i linguaggi messi a punto nei suoi precedenti film musicali. Dopo la visione di questa splendida pellicola abbiamo un unico rammarico: non aver vissuto personalmente quanto visto sullo schermo. Ma per questo c’è sempre il cinema.