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La decostruzione di un mito sfuggente. Il recupero scorsesiano della Rolling Thunder Revue

In un panorama contemporaneo dove la riflessione sull’autenticità dell’informazione coagula buona parte del dibattito pubblico, neppure l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, dedicato alla Rolling Thunder Revue, è potuto uscire indenne da un severo fact-checking dei suoi critici: sono bastate le prime avvisaglie di palesi incongruenze con la vulgata dylaniana a far nascere un florilegio di articoli dedicati ad elencare le fake stories della narrazione documentaria, quasi nel tentativo di restituire – di contro – una nitida occhiata del tour di “His Bobness”. La caccia alla bufala è quindi divenuta un piacevole giochino per ogni appassionato, rischiando tuttavia di lasciare inevase le domande sul motivo di una scelta di questo tipo: domande non ancora poste all’autore newyorkese, il quale – dal canto suo – si è limitato ad una sibillina video-intervista pubblicata da Netflix in occasione dell’uscita del film.

“Rolling Thunder Revue” di Martin Scorsese e il camouflage del documentario

Proprio per contribuire al velo di mistero che da sempre avvolge il menestrello di Duluth, Scorsese camuffa la realtà, introducendo nella storia personaggi inventati: Van Dorp, il regista che tenta di realizzare un film sul tour non è mai esistito e la testimonianza di Sharon Stone è pura fantasia. Il produttore del tour, anch’esso un personaggio fittizio, diventa invece il villain di turno, che preferirebbe trasformare il Rolling Thunder Revue in una macchina da soldi, piuttosto che in un’esperienza intima e riconciliante. Il tour di Dylan – come è lui stesso a dichiarare sul finale – fu finanziariamente disastroso. Ma dal punto di vista umano divenne un trionfo. Il musicista donò ai giovani quello che cercavano: un senso di comunità e di unione nel quale ritrovare se stessi. 

Le molte facce di Bob Dylan

Quello di Todd Haynes è un cinema che ama decostruire generi preesistenti ormai consolidati nelle loro strutture canoniche, ricostruendoli in forme nuove e personali pur se rispettose della tradizione. Così è stato ad esempio per il remake di Secondo amore di Douglas Sirk (Lontano dal Paradiso, 2002) o l’adattamento nel 2011 di Mildred Pierce di James M. Cain già portato sullo schermo da Michael Curtiz nel 1945. Lo stesso metodo è applicato a Io non sono qui (2007), ispirato “alle canzoni e alle molte vite di Bob Dylan”. A cavallo tra il mockumentary e il film narrativo, il regista si scosta dal genere biografico, seguendo invece una linea decisamente più originale, suddividendo il racconto in sette periodi cruciali della carriera del cantautore americano. 

“No Direction Home” e lo Scorsese “dylaniato” dalla nostalgia

Se Bob Dylan è un universo in espansione, il documentario di Scorsese No Direction Home è una ricostruzione del Big Bang. Chi inizia a raccontarlo è il protagonista, il Dylan musicista più che il Dylan personaggio. Dal racconto personale sulla formazione musicale (a dieci anni suonava già la chitarra e il pianoforte comprati dal padre nella casa d’origine), all’ascolto dei miti della musica folk e blues (Muddy Waters, Gene Vincent, Odetta, Dave van Ronk) fino allo shock dell’incontro musicale con Woody Guthrie, l’alternanza tra immagini di repertorio e il racconto dello stesso Dylan, costruiscono un viaggio (musicale, nella storia del folk) nel viaggio (personale, nella storia di un uomo). Il cambiamento assume sembianze diverse: mentre Allen Ginsberg definisce Dylan come uno sciamano in pubblico, le sue canzoni – viene sottolineato da quasi tutti gli intervistati – scioccano l’ascoltatore per la novità della composizione e dell’interpretazione (il sound, la voce, le parole).