Ridotto a vivere per strada come tanti della sua cittadina, vessata da un potente magnate, l'appassionato di storia romana Eddie si domanda come mai non abbia avuto la fortuna di nascere nell'epoca da lui tanto amata. Quando inaspettatamente ci si ritrova, si accorge che i capricci e le prepotenze dell'imperatore e dei suoi accoliti gli causano non meno disavventure.

Il museo degli scandali (Roman Scandals, 1933) è un meccanismo a orologeria e la perfetta commedia con budget dei primi anni '30, quando passato lo shock del sonoro si è appena compresa la forte presa sul pubblico di una parte musicale ben curata. Samuel Goldwyn non vuole fare mancare nulla al pubblico della Grande Depressione, bisognoso di svago: battute senza sosta e un tocco di slapstick, canzoni appiccicose e balletti indiavolati, scenografie stupefacenti e donne simili a dee, inseguimenti a perdifiato e persino lo stupore esotico di scimmie e leoni.

Frank Tuttle, al lavoro come regista da una decina d'anni, è già una vecchia volpe della commedia e ha girato giusto l'anno precedente il primo di una serie di musical con Bing Crosby. Per quello che diventerà uno dei maggiori successi commerciali del 1934, Tuttle può contare - oltre che sul montaggio di Stuart Heisler, a cui la rassegna I fuorilegge: Frank Tuttle vs. Stuart Heisler di Cinema Ritrovato 2020 lo accosta - sulla collaborazione di fior di professionisti, da Gregg Toland alla fotografia ad Alfred Newman alle musiche, passando per le eccezionali coreografie di Busby Berkley interpretate dalle statuarie Goldwyn Girls (fra loro le sconosciute Paulette Goddard e Lucille Ball), che contribuiscono in modo fondamentale alla magnificenza e all'erotismo del film.

Più che nell'impero romano, siamo nel regno del kitch sublime, fra scenografie magniloquenti, dorature a profusione, e armature dei soldati risplendenti di gigantesche paillettes. Metà delle pur divertentissime battute e trovate del film restano testimonianza dell'umorismo di quasi un secolo fa e sarebbero a dir poco inopportune oggi, dall'utilizzo della black face da parte del protagonista per nascondersi, a una erotizzazione spudorata delle grazie femminili peraltro abilissima nel mantenersi sul filo delle trasparenze, agli albori di un Codice Hays in quei primi anni ancora mal applicato. Le donne sono qui oggetti del desiderio eppure Tuttle, che tanto spazio ha riservato loro nella sua filmografia, riesce con tocco leggero a renderle al contempo anche soggetti dalla indomita volontà o dalla ferale e melliflua astuzia.

Nonostante qualche tocco personale, c'è da dire che rispetto ai successivi film degli anni '40, in cui lo sguardo di Tuttle si fa più critico e sottilmente politico, qui l'equiparazione fra la dissoluzione della struttura sociale nell'era post 1929 e la dissolutezza dell'impero romano fa più il gioco del mantenimento dello status quo dell'epoca che da detonatore delle disuguaglianze. In ciò sembra di intuire come, nonostante il forte credito in cui era tenuto in conto dall'industria, il regista non avesse ancora grosso margine di manovra, come tipico nella Hollywood del tempo. Certo l'antipatia e lo scherno verso gli aridi capitalisti che preferiscono costruire prigioni piuttosto che case c'è già tutta.