Attraverso uno spaccato anni Novanta un po’ grottesco e un po’ idillico, Rossosperanza accompagna lo spettatore in un mondo dalle tinte gotiche e glam, nel quale lo sfarzo e l’eccesso diventano l’emblema di quel berlusconismo che ha delineato l’immagine nazionale. Gli elementi della mondanità sono tutti presenti: i club, le droghe sintetiche, la prostituzione e una borghesia romana bacchettona e ipocrita.

Agli antipodi di questa realtà vi è un’altra, costruita dai giovanissimi prodotti di questo stesso sistema, i figli della vergogna, raccontati tra le righe fatte di reticenze e ironie all’interno dei discorsi degli adulti come menti deviate da curare. Ognuno dei giovani protagonisti è caratterizzato da difetti fisici evidenti, deformità e ossessioni patologiche, ricreando una banda di personalità borderline a metà tra Bling Ring e Freaks.

Allo stesso tempo, ciascuno di loro cerca l’evasione dalla propria condizione attraverso l’Arte e il Bello, simboleggiati da oggetti di colore rosso: un disco, un filo d’inchiostro per disegnare, una maglia alla moda, una barca diventano l’unico rifugio dal male e lo strumento prescelto per un riscatto temporaneo. Il rosso è anche il colore del sangue che espia l’adolescenza dai comportamenti considerati devianti, ciò che purifica la terra dagli adulti bugiardi, come mostrato nella sequenza finale.

In un’atmosfera che richiama Il Signore delle mosche di Golding, all’interno di una villa circondata dal sereno del paesaggio naturale, si scontrano i sentimenti di violenza e morte appartenenti ad uno stato ferino e incontrollabile, tanto selvaggio da peccare di incomunicabilità con l’apparente stato di civiltà dell’adulta borghesia. Tra le note dell’Italo Dance e il sogno glorioso della televisione commerciale fa capolino il volto di una collettività assolutamente impreparata verso l’educazione sessuale e la diversabilità.

Annarita Zambrano rende alla perfezione dal punto di vista estetico la totale assenza empatica della società patinata nei confronti della violenza di genere, del rachitismo e della balbuzie, lasciando poco spazio all’introspezione caratteristica del genere teen drama, in una disamina oniricamente confusionaria delle varie tematiche citate. Lo spettacolo è, dunque, quello di sadica mostrazione, efficace se si vuole rappresentare l’ignoranza dilagante rispetto ai temi da parte di tutti gli attori sociali coinvolti del tempo, tale da non riuscire nemmeno a permettere l’elaborazione emotiva, sacrificando conseguentemente la ricerca di un vero senso di fronte al dato performativo.

Il lungometraggio è interpretato teatralmente e caratterizzato da un’attenta cura del costume e dei costumi dell’epoca, al pari di una colonna sonora nostalgicamente vivace. Dall’altro lato, offre solo l’ennesima metafora di una realtà borghese, lussureggiante e viziata già declinata in tutte le sue nuances e decadi da Pasolini fino a Sorrentino. L’ibridazione del grottesco con il genere del momento non è sufficiente per avvertire l’esigenza di un film su una gioventù dorata e tormentata immersa in un periodo storico estremamente iconico per il paese e già esaustivamente indagato dai punti di vista proposti.

Per quanto siano presenti intuizioni considerabili interessanti, esse non vengono mai esplorate fino in fondo, racchiudendole all’interno di brevi sequenze facenti parte di un flusso asemantico quasi simile a quello televisivo. La cronicizzazione temporale, tematica e territoriale verso il Lazio e il mancato approfondimento delle svariate problematiche di rilievo sociale sottraggono spazio alle infinite possibilità di sperimentazione e senso delle quali il panorama cinematografico italiano contemporaneo necessita.