Dopo una carriera di circa quindici anni nell’ambito del documentario, Alice Diop compie un folgorante debutto nel cinema di finzione con Saint Omer. Siamo nell’ambito del cinema procedurale, quello che normalmente poggia sull’alternanza tra aule di tribunale e mondo esterno, che maneggia con attenzione i vari punti di vista per condurre lo spettatore alla verità. Ecco, la verità assoluta, quella della sentenza che può sfociare in una condanna o un’assoluzione, è qualcosa che in questo caso non interessa.

La regista francese porta in scena la storia di una madre accusata di avere ucciso la propria figlia di appena quindici mesi, rinvenuta senza vita su una spiaggia nel Nord del paese. L’imputata Laurence Coly riconosce come veritiera la ricostruzione dei fatti che la renderebbero un’infanticida, ma si ostina a non considerarsi colpevole. C’è qualcosa di non detto, di irrisolto e inaccessibile che aleggia sulle azioni di Laurence e che la corte cerca con forza di portare alla luce. Ben lungi dal voler restituire una versione esaustiva della vicenda,

Diop si affida al punto di vista esterno della scrittrice Rama (Guslagie Malanda), che segue il processo nella speranza di trarre ispirazione per la rivisitazione del mito di Medea a cui sta lavorando. Rama assiste al processo come spettatrice, tra le file del pubblico, assorbendo versioni e testimonianze che giungono senza mediazioni. E proprio nella costruzione registica del processo sta la grande forza di questo film tanto semplice e circoscritto a livello di spazi e ambienti, quanto radicale sul piano del linguaggio visivo.

Affidandosi principalmente a primi piani in camera fissa, in cui le parti coinvolte nel processo esprimono la propria parziale versione dei fatti, Saint Omer pare dapprima adoperarsi per un annullamento dell’empatia che lentamente si trasforma in sguardo onnicomprensivo. Una visione che si rivela affatto fredda e distante, ma consapevole della propria inadeguatezza e quindi alla disperata ricerca di un senso, di una chiave di lettura che possa concedere una forma al caos cui sta assistendo. E il volto di Rama è la tela su cui viene dipinto questo inconsueto legame empatico. Attraverso le sfumature mimiche generate sul suo viso dalle voci provenienti dal fuoricampo, avviene la graduale conversione allo statuto dell’incredulità.

Se inizialmente la posizione di una madre infanticida appare come indifendibile, l’emersione del personaggio di Laurence in tutta la sua vulnerabilità induce ad un inevitabile ripensamento delle iniziali convinzioni di Rama (e per esteso di noi spettatori, che a lei facciamo affidamento). Questo scarto percettivo, questa totale crisi della capacità di giudizio di fronte ad una realtà guasta ed apparentemente impossibile da ricomporre, diventa sotto la già sapiente direzione di Alice Diop il viatico per l’impostazione di una rigorosa estetica dello spaesamento.

Con fare asciutto e inesorabile, la macchina da presa inquadra i corpi crocefiggendoli all’interno dello spazio filmabile e costringendoli a denudarsi emotivamente di fronte ad essa. Non c’è assoluzione, ma di fronte a questa stato di impotenza cognitiva non può esserci nemmeno condanna.  Siamo in un terreno altro, dove le colpe non possono essere attribuite secondo l’arida applicazione di un sistema legale, ma attraverso una mediazione di sentimenti basati sulla fiducia.

Perché alla fine tutto si riduce a questo, alla scelta di credere o meno alle parole dell’autrice di un omicidio che pur ammettendo di avere commesso il fatto giura di essere innocente in quanto mossa da qualcosa che non poteva controllare. In tutta la sua imperscrutabilità Saint Omer rimane il racconto di una solitudine talmente opprimente da condurre al più tragico degli epiloghi. Un dolore così lacerante da essere trasmissibile anche da dietro la sbarra degli imputati. Una sofferenza contagiosa che annulla qualsiasi giudizio per aggredire le nostre certezze e ricordarci quanto sia giusto dubitare delle nostre convinzioni.