In occasione dell’uscita in Blu-ray di Salò o le 120 giornate di Sodoma, edito da CG Entertainment e contenente la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, ci soffermiamo sull’“astenia” rivoluzionaria e sulla bulimia linguistica del potere teorizzate dal regista, affrontando in particolare il tema del riso.
Archiviata la Trilogia della vita per mezzo di un’abiura ferocemente esposta, Pasolini si rende conto che la dialettica servo-padrone continua a consumarsi sul corpo della vittima, deturpata e svilita come l’oggetto inerte nelle mani sadiche del marchese. La violenza del padrone sullo schiavo, legittimata dal consumismo sfrenato, è ora ammantata dal falso mito della liberalizzazione del costume e per questo, anche le vittime, si avvitano alle stesse contraddizioni contro le quali avevano lottato per liberarsene. Non c’è dissenso, ma solo complicità, nella fine del mondo libero. Nel regno dell’abiezione immaginato da Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’espressione linguistica diventa comportamento svuotato di senso, il motto si trasforma in sciatta propaganda e il linguaggio del potere si manifesta in una geometrica coazione a ripetere. Ecco allora il perché della struttura – l’Antinferno e i tre gironi – del “teorema” delle perversioni fisiche, di quell’abisso epistemologico che segna un solco tra la Storia svanita e le storie soppresse.
Il Monsignore, il nobil Duca e gli emeriti presidenti riuniti nella villa delle torture insieme alle quattro megere occupano, come i succubi, le stesse posizioni all’interno di una scacchiera immutabile che rappresenta l’ordine (capitalistico) delle cose. In tutto questo marasma spunta quasi sempre fuori il riso, spesso di scherno, talvolta opportunistico, altre volte grottesco o legato ad una divagazione lirica. C’è chi ride per non piangere, come il giovane sottomesso che deve assecondare per forza le voglie del suo comandante, e chi ride perché è felice di non capire, come l’aguzzino che diventa caricatura senza esserne consapevole. Il riso umano, allora, diventa linguaggio propulsivo che, deformandosi, si lega alla degradazione fisica e morale; riso e dolore, come diceva Baudelaire nel saggio Dell’essenza del riso, trovano la loro via d’uscita attraverso la bocca e gli occhi, gli organi che ospitano la scienza del bene e quella del male.
È la bêtise del potere, che si manifesta con bocca laida e vogliosa quando lo sguardo è messo a nudo e che riesce a catapultare lo spettatore nella cloaca immonda del culto esibito, ritmato a suon di canzonette e bagattelle sprizzanti sangue: in questo regno della performance abietta il canto fascista può intrecciarsi alla barzelletta di Perotto e, quella del bolscevico sprofondato nel Mar Rosso, risuonare tra la musica (alta) del piano. L’uomo al potere riesce anche a ridere di gusto, in modo esasperato, mentre il sottomesso di turno stropiccia le labbra solamente, sotto mentite spoglie, se vuole fare il ruffiano, il traditore o se vuole pensare ad altro, mentre la parola vuota risuona tra le pareti lerce agghindate dalle avanguardie di inizio secolo. Se in Orgia, la tragedia in versi di Pasolini, il teatro è parola pura, in Salò lo spazio scenico si fa negazione della stessa, affogato in un formalismo ineccepibile, incapace di mutare forma perché cristallizzato in istanza programmatica, come le grossolane acrobazie degli altissimi e le genuflessioni dei penitenti.
Il finale di Salò, che sembra aprirsi alla speranza di una divagazione pensosa nel momento culminante della tragedia, offre in realtà lo scacco matto alla rivoluzione popolare. Le giovani vedette assoldate dai fascisti ascoltano in radio il brano Son tanto triste e, nonostante siano invasi dal sangue innocente, riescono a rivolgere l’attenzione alle fidanzate, in modo quasi naturale e spontaneo, scambiandosi un sorriso d’intesa. Basta ora una canzone popolare, ed una strana distensione delle labbra, per far ricominciare daccapo il mesto rito in un altro tempo, perpetuando la barbarie del potere anarchico in un mondo che non sarà mai completamente libero.