Il filo della memoria corre lungo tutta l'opera di Moretti. Perdere la memoria per poter compiere una indagine nella propria identità politica, scrivere diari per ricordare viaggi, persone, dolori personali e grandi passioni, tentare di fare un documentario per testimoniare i cambiamenti in atto nella società: il gesto che si compie è sempre lo stesso, quello di portare in una dimensione pubblica, condivisa, aperta allo sguardo di una collettività, il proprio bisogno di tenere traccia di qualcosa che non deve svanire.


Fra testimonianza e autobiografia, nel gesto del ricordare, tanto caro a Moretti, ci sono due movimenti che questo documentario, ulteriormente ribadisce: da un lato il gesto di trattenere nella propria memoria, di fissare l'importanza di eventi del passato facendoli riaffiorare nel suo/nostro presente con un intento certamente morale; dal altro lato c'è il costante bisogno di tornare ad occuparsi della realtà, di ribadirne la forza, di tenersi sempre ben ancorato allo stato delle cose, trovando nella memoria storica chiavi di lettura per il presente, per affrontarlo, interpretarlo e comprenderlo meglio.

Così in questo Santiago, Italia Moretti compie un viaggio a ritroso, attraverso le testimonianze di chi il golpe di Pinochet lo ha vissuto ed è riuscito a sopravvivere, lascia che i protagonisti rievochino quel drammatico periodo e l'insperata salvezza in un paese lontano e straniero eppure da subito così familiare e accogliente. Fissa quei ricordi, quegli occhi lucidi e commossi, quelle parole che scorrono sicure e infallibili nel rievocare quegli istanti di fuga, la scomparsa dei tanti compagni, dei familiari e anche la perdita di un paese che improvvisamente non li riconosceva più e che loro non potevano più riconoscere. Mentre compie questo viaggio all'indietro, non dimentica Moretti l'oggi, il presente. Non si dimentica di ancorare questi ricordi a ciò che stiamo vivendo in Italia in questo momento. Ecco che l'ultima testimonianza del documentario salda così, in maniera pesantissima per tutti noi, quanto fin lì ricordato e rievocato, con la nostra realtà, con la nostra cronaca quotidiana così spietata e disumana, che non pare quasi avere nulla a che fare con quell'umanesimo solidale e accogliente di cui invece il nostro paese ha saputo dare prova nel corso della dittatura di Pinochet. Una consapevolezza sull'oggi che ci investe con una gravità ancora maggiore dopo quel viaggio nella memoria che Moretti ci ha appena fatto compiere.

Il regista lascia che i volti e le parole riempiano la scena, alternati solo da immagini di repertorio e ritaglia per se un ruolo defilato, mai invadente, mai protagonista, sempre pudico, da testimone sensibile e partecipe. Solo in una occasione, ma determinante, sceglie di esserci, palesandosi dentro al documentario. Mentre intervista un militare, che pretendeva di difendere le ragioni di quel golpe, si sente dire che vorrebbe che la sua intervista venisse usata all'interno di un discorso imparziale su quegli avvenimenti. Qui Moretti decide di rompere la programmatica discrezione del suo documentario, la sua presenza/assenza fin lì mantenuta, che poi riprenderà poco dopo, perché ritiene sia necessario prendere una posizione chiara. Non si può raccontare un tentativo di sopravvivenza ad una dittatura e restare nell'ombra mentre qualcuno pretende di mettere sullo stesso piano le ragioni di chi scappa e quelle di chi toglie la libertà, diffonde il terrore e uccide.

Certo Moretti poteva non intervistarlo. Oppure poteva eliminare quell'intervento. Sceglie invece di inserirlo e di inserirsi nell'intervista e con un sereno ma fermissimo “Io non sono imparziale” mentre risponde al militare, fa una dichiarazione molto netta sul senso di responsabilità che sente su di sé mentre racconta di quegli eventi. Filmare quelle testimonianze non era certo un gesto imparziale, ma qui occorreva ribadirlo con forza, occorreva essere in prima persona, schierarsi con un gesto che ha molto a che fare anche con quella ricerca di identità tanto cara al cinema di Moretti.

...voi non avete più la memoria, il vostro paese deve ricominciare a riflettere su se stesso” diceva il giornalista francese a Moretti nel suo Aprile (1998) suggerendogli di fare un documentario sull'Italia, che poi non si riesce a realizzare. Vent'anni dopo è forse questo il miglior documentario possibile sull'Italia, su cosa eravamo, cosa siamo e cosa potremmo ancora essere.