Una perdita, ancora una volta.  Perché se dramma deve essere, occorre che metta in discussione tutto. Così nel cinema di Ferzan Özpetek il tema della perdita è motore di ogni storia, punto di rottura di ogni equilibrio. Ma il dramma è sempre anche un nodo da sciogliere, da elaborare e dunque anche, una occasione di scavo interiore e in un certo senso, una possibilità di rinascita, per una persona, per un sentimento. Così il regista italo-turco, dopo le incursioni metafisiche di Napoli velata (uno dei suoi film più ambiziosi e affascinanti pur se non del tutto riuscito), si dedica proprio alla ricostruzione di un sentimento, ad un amore che è cambiato nel tempo logorando se stesso.

Edoardo Leo (che diretto con mano così ferma dimostra che non è solo la commedia il suo territorio d’elezione) e Stefano Accorsi  sono una fin troppo rodata coppia che dopo tanti anni di vita insieme sta assistendo, fra infedeltà più o meno serie e durature, al lento disfacimento del loro rapporto. Jasmine Trinca,  amica di lunga data della coppia, dovendo ricoverarsi in ospedale per degli accertamenti, chiederà loro di occuparsi dei suoi figli di 9 e 12 anni. Come l’affetto per questi bambini riuscirà ad inserirsi dentro le pieghe della loro storia, scardinando la percezione che ognuno dei due ha dell’altro, costringendoli a rileggere il loro sentimento è essenzialmente il punto nodale della pellicola.

Attorno a loro, un côté di personaggi abbastanza tipici del cinema di Özpetek , amici e vicini di casa che non sono mai un semplice contorno ma sono anzi fondamentali per ribadire l’idea di famiglia che il regista va costruendo e narrando da oltre vent’anni. Ed è proprio mentre il dolore sembra disfare ogni cosa che la capacità di creare rapporti, di costruire relazioni, di avvertire il simile nel dissimile (Adorno), che è possibile parlare di famiglia. Attorno a questa idea, frequentemente, ma mai in maniera radicale come in questo film, il regista contrappone l’immagine di una famiglia tradizionale, opprimente, incapace di andare oltre alle convenzioni o alle convinzioni, dove i sentimenti sono qualcosa di dovuto, di scontato, non da conquistare o coltivare.

Il territorio in cui si muove il regista fin dai suoi esordi è quello sospeso fra il dramma e la commedia ed è evidente da tempo (la sua sincerità di scrittura pur non esente da qualche ingenuità ne è da sempre una puntuale conferma) che alla base ci sia una reale urgenza poetica, una onestà di sguardo sul mondo, che richiede questa commistione di registri e di toni. Non è però semplice trovare un punto di tenuta fra i lati più tragici di una storia e momenti più leggeri, distesi, magari anche divertenti. Tuttavia la soluzione con cui Özpetek  riesce a trovare questo equilibrio, al netto di qualche cedimento che riesce solitamente a farsi subito perdonare, è la musica. Attraverso la musica infatti, e in particolare grazie ad un sapiente uso di canzoni popolari nella colonna sonora, il regista cerca, e solitamente trova, il punto di tenuta emotiva del film.

Così l’inserimento di Veinte años (cantata da Isaac e Nora, un duetto di musicisti francesi di 8 e 11 anni) o la ormai ben nota Luna Diamante cantata da Mina su magnifico testo di Fossati, non sono semplici intermezzi musicali ma un vero e proprio controcanto emotivo ai sentimenti dei personaggi e non di meno, sono anche un modo per tenere le redini del pathos ben salde, evitando di portare il dramma verso le sue conseguenze più estreme e dolorose, grazie alla catarsi musicale che ora concede un abbandono più libero e personale all’immedesimazione nella vicenda, ora permette invece di ricostruire una armonia, un equilibrio, quasi una speranza, come nel ballo corale in terrazza, sotto una pioggia battente, liberatorio, durante il quale, per un attimo, pensiamo che tutto possa andare per il meglio.

Un Özpetek  sempre più maturo e consapevole ci consegna qui forse il suo film più riuscito: fiero delle proprie fragilità, il suo è ancora un cinema capace di prendersi il proprio tempo, un cinema che sembra lasciare davvero liberi i personaggi, dove lo spazio scenico può essere finalmente esplorato e vissuto e non solo attraversato, dove non occorra intellettualizzare i sentimenti per evitare il melodramma, un cinema dentro al quale, per lo spettatore quasi prima che per i personaggi, è ancora possibile ballare e  dove è possibile un finale fatto solo di sguardi e sorrisi, trattenuti l'uno nelle profondità dell'altro, per sempre.