Il magnetico caporedattore Giancarlo Bizanti, interpretato da Gian Maria Volonté, si mette a indottrinare un giovane novizio con un perturbante monologo su come il titolo “Disperato suicidio di un disoccupato” possa diventare “Drammatico suicidio di un immigrato [dal Sud Italia, N.d.R.]” mantenendo inalterato il proprio valore di verità, ma producendo effetti emotivi del tutto differenti nei lettori.

Siamo giusto all'inizio di Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, arrivato ora in splendida forma al mezzo secolo di vita, e ci troviamo immediatamente immersi nel clima di quegli anni. Un clima da guerra civile, plumbeo e violento. Bizanti è una mente affilatissima, si considera un interventista e disprezza l'idea del giornalista come semplice osservatore degli eventi. Si comporta di fatto più come uno stratega politico che un cronista: non esita a utilizzare le più bieche astuzie per orientare l'opinione pubblica, e indottrina le nuove leve alla sua visione del mondo. Quando una sedicenne viene ritrovata stuprata e uccisa – evidente il riferimento al caso di Milena Sutter, avvenuto l'anno precedente – e si scopre che un esponente della sinistra extraparlamentare aveva una relazione con lei, vi intravvede la strada per far vincere le elezioni alle forze conservatrici.

Ereditato da Bellocchio in corso d'opera, dopo i dissapori dell'autore e regista sino a quel momento Sergio Donati con Volonté e la produzione, Sbatti il mostro in prima pagina è passato per certi versi alla storia come una creatura del regista a metà, come un Bellocchio non in purezza. Se è vero che manca una sua certa tipicità di racconto, quel classico taglio psicoanalitico-ancestrale sulle strutture del potere (che tornerà subito dopo in Marcia trionfale del 1976), è pur anche vero che il Bizanti di Volonté è in fondo l'ennesimo cattivo genitore della sua filmografia, per il giovane giornalista che si accinge a entrare nel mondo.

Ma soprattutto per il Bellocchio di quegli anni Marx non può affatto aspettare: pienamente immerso nella scena politica, milita nell'Unione dei Comunisti Italiani marxisti-leninisti, gira documentari sulle piazze e ha appena firmato nel 1971 la lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli. Dunque il giallo politico all'italiana, quel cinema di genere tanto in voga nel periodo – proprio del 1972 è la vittoria ex-aequo a Cannes de Il caso Mattei di Francesco Rosi e di La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri, entrambi con Volonté protagonista – non pare poi così lontano dalle sue istanze. Chiama così a raccolta Goffredo Fofi per rimettere mano alla sceneggiatura e accentuarne gli aspetti politici, puntando in particolare alla demistificazione de Il Corriere della Sera, “l'organo della borghesia reazionaria” al centro della costruzione della pubblica opinione italiana con temibili derive come il caso Valpreda.

Il quotidiano Il Giornale al centro del film è dunque del tutto finzionale e non c'entra nulla con quello fondato due anni dopo da Indro Montanelli – per quanto a quest'ultimo vada riconosciuta una certa temerarietà nel chiamare il suo giornale conservatore di destra proprio in quel modo, dopo la rappresentazione agghiacciante che ne era stata fatta. Così, proprio nel filone del cinema di “consumo impegnato”, come era ribattezzato con sufficienza da chi pensava che la rivoluzione contro il sistema andasse fatta sin dalle fondamenta del linguaggio cinematografico, e non ricalcandone le seduzioni da grande pubblico, Bellocchio trova uno spazio per riflettere su aspetti che ritroviamo oggi invecchiati infinitamente meglio di tante altre opere coeve.

Alla luce del fatto che, come nota Giovanni Spagnoletti, “Il cinema politico-militante è quello che tende a un più rapido invecchiamento, quello che, nato quale anticorpo all'interno del tessuto sociale, va sostanzialmente a morire non appena quello stesso tessuto ha trovato il modo di assimilarlo oppure di estrometterlo in maniera definitiva”, notevole risulta la chiarezza di visione di Bellocchio nel mettere al centro della comprensione di quel momento storico l'analisi dei media, qualcosa che come società non siamo ancora in grado di fare neppure oggi, non appena al di fuori del dibattito accademico ed entrando in quello pubblico.

Certo, Sbatti il mostro in prima pagina risente della contingente agenda del regista al tempo e in generale della polarizzazione di quegli anni, quando decide di concentrarsi sui misfatti di una parte politica soltanto: non solo il giornale reazionario, ma anche la polizia che usa invariabilmente metodi fascisti, disponendo perquisizioni senza mandato e non garantendo agli arrestati i loro diritti. Ma se Bellocchio rischia di argomentare proprio nei modi che sta cercando di stigmatizzare, la sua analisi delle prassi machiavelliche delle forze conservatrici per mantenere il potere non si dimentica, pur non obliando mai la sua abituale onestà intellettuale e non facendo nulla per rendere particolarmente simpatiche nemmeno le fila dell'estrema sinistra e i loro metodi da guerriglia urbana.

Alla fine di tutto resta però essenzialmente un mare di putridi liquami che continua inesorabile a scorrere, non è chiaro sino a quando.