L’11 aprile 1973 la SVT2, il secondo canale svedese, trasmette il primo episodio di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, serie che per le successive sei settimane avrebbe tenuto compagnia al pubblico televisivo.

Quello tra Bergman e la televisione è stato un rapporto estremamente fortunato. François Truffaut sosteneva che Bergman avesse compreso perfettamente la natura del racconto televisivo, che, caratterizzato dalle ridotte dimensioni dello schermo, si costituiva intorno alla parola: Scene da un matrimonio è infatti un’opera che fa della parola il proprio nucleo espressivo, configurandosi come un lunghissimo dialogo tra due personaggi.

Anche lo stesso Bergman ammise la propria ammirazione per il formato televisivo, secondo lui addirittura superiore a quello cinematografico, individuando nella sua capillarità e nel piccolo schermo una possibilità espressiva e di penetrazione maggiore. Non secondario è inoltre il ruolo che la televisione ha svolto per la circolazione internazionale della produzione di Bergman, soprattutto in Italia, dove il pubblico generalista conobbe la poetica del regista grazie alla trasmissione da parte della Rai dei suoi film televisivi, tra cui anche Scene da un matrimonio.

Nonostante nel 1974 ne sia stata montata una versione ridotta per le sale cinematografiche, non si può leggere Scene da un matrimonio senza collocarlo all’interno del pensiero di Bergman riguardo la televisione, considerando anche che questo titolo ha ispirato la creazione di Dallas, la nota soap opera della CBS andata in onda dal 1978 al 1991.

Se da un lato c’è la televisione, l’altro medium fondamentale nella poetica di Bergman è il teatro. La formazione di Ingmar Bergman nasce nel teatro e lo stesso Scene da un matrimonio ha origine come testo teatrale, che poi l’autore decise di ampliare per approfondire la storia dei suoi due protagonisti. Il racconto ruota attorno a Marianne (Liv Ullmann) e Johan (Erland Josephson), coppia all’apparenza perfetta, ma i cui lati oscuri emergono quando Johan rivela a sua moglie di essersi innamorato di un’altra donna e di voler divorziare.

Ognuna delle sei puntate racconta un momento tra Marianne e Johan, “sei distinti dialoghi sull’amore”, come li definì Bergman, che mettono in scena la complessità delle relazioni umane e delle pressioni sociali. Prende forma una critica al matrimonio come istituzione, attraverso cui Bergman racconta temi e sentimenti centrali nella sua intera filmografia, come il desiderio, la solitudine, l’ossessione. Le differenze tra i due protagonisti vengono indicate già dai primi minuti, dove all’interno di un’intervista di coppia, pur sottolineando l’armonia quasi geometrica del loro rapporto, Marianne e Johann mettono in luce un’opposizione decisiva: se Johann ammette la propria attitudine egoistica, Marianne al contrario dice di credere nell’altruismo verso il prossimo.

Proprio questo divario tra due diverse concezioni della vita portano nel corso degli episodi al collasso di una relazione romantica, che si rivela sorta per compiacere gli altri, ma che in fin dei conti non è estranea all’amore. È proprio l’amore, secondo Bergman, l’ultima salvezza possibile: non c’è retorica in questa riflessione, solo la convinzione che nell’estrema disperazione sia proprio la profondità di una relazione a regalare un’ultima possibilità di riscatto.

Tutto ruota intorno alla parola, al dialogo, che crea una prossimità e un’intimità con lo spettatore, possibili anche grazie all’estetica messa in pratica da Bergman: gli esterni sono ridotti al minimo e la maggior parte della vicenda si svolge in interni. La divisione delle singole puntate a seconda degli spazi consente a Bergman di ragionare sui luoghi, renderli espressivi e funzionali a ciò che racconta.

Un esempio è il quinto episodio, ambientato quasi interamente nell’ufficio di Johann, che diventa il teatro dello scontro dialettico e fisico tra Marianne e il marito. Il minimalismo con cui è arredata la stanza, unito ai colori che lo rendono poco accogliente – come non manca di osservare Marianne – fanno dell’ambiente al contempo una scenografia di chiara derivazione teatrale, nonché lo sfondo ideale su cui dipingere l’opposizione tra i due protagonisti.

C’è quindi un divario tra una chiusura visiva, data dallo schermo televisivo e dalla composizione delle inquadrature, e invece un’apertura intermediale che proietta Scene da un matrimonio in dialogo con le altre forme espressive. Questa vocazione ad uscire dai confini testuali si è riflessa anche in un sequel televisivo del 2003, Sarabanda, diretto ancora una volta da Bergman, ma anche in tante altre opere derivate; è già stata citata Dallas, ma tra i titoli più recenti si può nominare Scene da un matrimonio della HBO con Oscar Isaac e Jessica Chastain.

A cinquant’anni dalla sua messa in onda, quindi, si può ancora discutere dell’opera di Bergman; forse il lato più interessante di un nuovo sguardo sull’argomento è proprio interrogarsi sulla capacità di Scene da un matrimonio, pur nella sua singolarità stilistica e narrativa, di presentarsi come racconto universale sulle relazioni umane e dunque di farsi modello per tante altre narrazioni.