Il gigante (1956) di George Stevens (disponibile a noleggio sulle principali piattaforme) è spesso onorato del titolo di capolavoro, di film epico che ha fatto la storia del cinema, circondato anche da un’aura di iconica e sacra nostalgia in quanto ultima interpretazione cinematografica di James Dean. Il film è stato considerato come una celebrazione elegiaca per Dean, per un’utopica società americana prevalentemente agraria che lasciava il posto ad una dominata da logiche di guadagno e ostentazione, e per la stessa era classica di Hollywood, qui rappresentata dal grande sforzo produttivo e dal cast stellare. A parte il rigoroso e commovente documentario Children of Giant (2015) di Hector Galan, dove si affronta il tema della segregazione razziale dei texani di discendenza messicana nei luoghi scelti come set per il film, Il gigante non ha attirato grande attenzione critica per le sue politiche di razza, genere, classe o per il modo in cui riscrive il mito della frontiera americana. Mettere Giant al centro della storia del cinema per la sua celebrazione dello spettacolo cinematografico, però, ha offuscato la riscrittura della storia americana operata da Stevens e dai suoi sceneggiatori attraverso un meccanismo contraddittorio di revisione e compromesso rispetto alle mitologie nazionali.
Eppure, fin dai primi scambi tra Bick Benedict (Rock Hudson), erede di una ricca famiglia di allevatori texani, e la sua futura sposa Leslie (Liz Taylor), indipendente ragazza del Maryland, è chiaro che il film non è semplicemente la descrizione delle dinamiche di un triangolo amoroso. “Il Texas l’avete rubato dal Messico, giusto?” chiede provocatoriamente Leslie a Bick a colazione, trasformando immediatamente schermaglie tra innamorati in una revisione dell’idea della frontiera come conquista di terra vergine benedetta dalla missione civilizzatrice del popolo americano. Per quanto Bick si risenta dei ragionamenti indipendenti della futura moglie, il primo dei tanti episodi in cui Leslie si ribella ai dettami del patriarcato, nel corso del film emerge chiaramente che la terra è stata effettivamente sottratta ai messicani. Il benessere dei Benedict è costruito sullo sfruttamento della popolazione di origine messicana e dei poveri braccianti bianchi come Jett Rink (James Dean). Non c’è quindi nessuna missione civilizzatrice nell’opera dei Benedict.
Più che un’elegia per un’utopica America rurale che lascia il posto, dopo la scoperta del petrolio, ad un’aggressiva industrializzazione, Il gigante mette in evidenza lo sfruttamento razziale e di genere in comune tra i due modelli. Più che opposti, questi sembrano l’uno la logica evoluzione dell’altro. In fondo, la radice della fortuna di Rink è proprio nel pezzo di terra lasciatogli in eredità dalla sorella di Bick nel loro stesso podere, Reata. Il mito americano della mobilità sociale e del self-made man viene mostrato in tutta la sua potenziale crudeltà: una volta diventato ricco petroliere, Rink, pur essendo stato lui stesso a far scoprire a Leslie la realtà di sfruttamento della popolazione di origine messicana, diventa ugualmente discriminatorio limitando l’entrata nel suo hotel ai soli bianchi.
Come nei romanzi di Faulkner, una delle ansie maggiori drammatizzate ne Il gigante è la paura del meticciato, il mescolarsi delle razze: in questo senso è potente ed evocativa l’immagine finale del girello con i due nipoti di Bick e Leslie, uno bianco e uno meticcio. Jordan (Dennis Hopper), il loro primogenito, ha infatti sposato Juana, un’infermiera di origine messicana. “Ero davvero scioccata dalla quantità di trucco che mi mettevano per farmi sembrare molto più scura di quello che ero realmente”, ha dichiarato sessant’anni dopo la fine delle riprese Elsa Càrdenas che interpreta Juana nel film. Nel rendere più diversi gli “altri”, il film di Stevens tradisce i compromessi che anche un’agenda progressista deve fare con l’immaginario nazionale.