Se pensiamo che l’adattamento cinematografico della biografia di Frank Serpico sia stato scritto da Waldo Salt — per anni nella lista nera di Hollywood — e da Norman Wexler — che da lì a poco avrebbe realizzato La febbre del sabato sera — ci sembrerà piuttosto naturale che il più integerrimo poliziotto del dipartimento di polizia di New York si rifiuti di tagliare barba e baffi, indossi ampie camicie di lino e dimostri un interesse morboso per Isadora Duncan e il balletto. Il Serpico di Lumet è un’anomalia su più fronti, incarna i valori più alti della sua missione ma empatizza con la strada, respira con essa, dialoga più a suo agio con i malviventi che con i suoi colleghi. La trasformazione di Al Pacino si compie come un’esagerazione progressiva: man mano che la corruzione dei distretti si rivela più ampia, Lumet ne estremizza l’aspetto e le bizzarrie. Presto la giustificazione del travestimento “sotto copertura” non regge più: Serpico è ufficialmente un freak, un emarginato, un autentico figlio della City. Ha dismesso l’uniforme, quella divisa che non significa più niente per lui, e veste i panni dell’escluso. I colleghi non lo capiscono, i capi lo reputano una seccatura, le sue compagne non ne comprendono il chiodo fisso che ne consuma l’esistenza. La morale di Serpico è diventata maniacale e i suoi gesti compulsivi come la città che percorre in lungo e in largo.
È la New York di Un uomo da marciapiede e quella futura de Il maratoneta, sporca e densa di intrighi (sempre più grandi di quello che appaiono). Una città pronta a risucchiarci nelle sue contraddizioni, bellezze e bruttezze metropolitane che esaltano e al contempo rigettano la diversità. Insomma, gli Stati Uniti nella loro quintessenza. E Sidney Lumet, che ha dichiaratamente rifiutato il mondo artificioso di Hollywood, gira Serpico in più di cento location nell’arco di tre mesi, un record che dimostra un interesse altrettanto maniacale per lo spirito frenetico della città e i suoi personaggi. Ignora i barocchismi, Lumet, e coglie i volti della decadenza americana con uno stile schietto al quale espone anche i suoi collaboratori, puntando dritto al cuore della vicenda.
Sappiamo sin dall’incipit che Frank Serpico stia rischiando la vita, e quel che facciamo, più che seguire la parabola dell’eroe, è ripercorrere le fasi della sua ossessione. Quella di Serpico coincide con l’incapacità di allinearsi alla corruzione istituzionalizzata. Il bambino che aveva idealizzato i “guys in blue” non può accettare che il suo sogno venga fagocitato dagli abusi di potere. Questo spirito di granitica autodeterminazione, così come viene messo in scena da Al Pacino, finisce quasi per atterrirci mentre il suo sguardo fisso e tagliente soverchia gradualmente tutte le altre emozioni. L’amore sbiadisce, l’entusiasmo e la pietà pure: resta solo la rabbia. E il volto del “poliziotto hippie” somiglia a quello di un moderno Gesù italoamericano: la sua Passione è il calvario riservatogli dal sistema, le tappe della via Crucis sono i distretti presso i quali è costretto a trasferirsi nel tentativo di ritrovare l’integrità alla base del ruolo che rappresenta. Morte e resurrezione di un poliziotto, dove la morte non riguarda l’uomo ma il simbolo, e dove la rinascita coincide con la disillusione. Il mito di Serpico è un’escalation di disgusto verso ogni tipo di degenerazione morale, la stessa repulsione che lo condurrà a rifiutare il tanto agognato distintivo d’oro da detective.
Guardare Serpico, oggi, assume un valore ancora più ampio. Lo sguardo all’epoca del Black Lives Matter o, restando in ambito nostrano, degli scandali di Piacenza, rinnova antiche insofferenze e frustrazioni nei confronti delle ambiguità delle istituzioni. E la New York degli anni Settanta, quella che isolava chi non si allineava al suo ritmo, diventa un simbolo del sistema capitalistico occidentale senza tempo, una struttura gerarchica di marciume sepolta sotto una coltre di burocrazia e larghe intese.