C’è un luogo mappato sulle cartine d’Italia, al confine tra il Lazio e l’Umbria, che fa da sfondo alle ultime due opere della regista italiana Alice Rohrwacher: l’altopiano dell’Alfina. Omelia contadina e  Quattro strade germogliano sotto uno stesso lembo di cielo, da un pezzo di terra che è naturale solo in apparenza. Per il Pasolini della Medea, film del  1969, sono gli dei a rendere la natura -presenza - e a imbastirla come materia originaria: “Tutto è santo e l'intera Natura appare innaturale ai nostri occhi. Quando tutto ti sembrerà normale della natura, tutto allora sarà finito!”; così canta nel prologo il centauro Chirone al giovane Giasone che pesca con i piedi immersi nell’acqua tiepida e le spalle rivolte alle nuvole che si specchiano nella laguna di Grado.

In una narrazione che principia da un contesto pagano è con il soffio della divinità che si determina l’esserci degli elementi naturali. Ma, fuori dal mito, la natura mostra la sua sacralità solo nella misura in cui si confronta con l’esperienza umana. Affermare che nella natura non ci sia niente di naturale significa sottolineare come non debba intendersi alla maniera dei latini (l’Altro da dominare, assoggettare, esaurire) bensì come la physis dei greci. In questa prospettiva “la totalità degli uomini e delle cose” ha già in sé una valenza politica, un’etica che soffoca - e che dovrebbe soffocare - le leggi che governano l’industrializzazione e il tornaconto che ne consegue.

L’azione cinematografica di Omelia contadina parte proprio da qui; dai ragionamenti della Rohrwacher e JR, la seconda firma del corto, sulle derive del sistema capitalistico in rapporto alle piccole realtà contadine, su come le grandi multinazionali che “piantano monocolture intensive, che sottraggono la terra, la consumano e la inquinano”  stiano violando lo statuto etico della natura permettendo che a regnare siano solo il profitto e la sovrapproduzione. I contadini di Omelia contadina si travestono da attori per mettere in scena la scomparsa del mondo rurale; per sottolineare come questo processo economico inadeguato stia aprendo la strada a una sua surrogazione.

Le voci dei personaggi risuonano per i campi che da sempre hanno lavorato e i passi incedono verso le fosse di terra rossastra predisposte alla sepoltura delle gigantografie senza colori, icone dell’avvenuta morte ma anche del dialogo tra l’estetica del linguaggio cinematografico e quello della street art. La banda suona, la marcia funebre inizia. Dovremmo immaginarli come gli abitanti di una grande tribù che allo scopo di crearsi una cultura collettiva si riuniscono intorno al fuoco: gli abitanti-attori, mascherati e in estasi, cantano e danzano intorno al cerchio di fuoco, ripresentando, al di qua delle fiamme, gli spiriti avversi  che albergano oltre la luminescenza, nella volta oscura del cielo notturno. Il rituale si fa dunque rappresentazione condivisa, si fa pratica esorcizzante. La performance diventa il confine tra il visibile e l’invisibile, la mimesis entro cui la natura, il mito, il sacro, vibrando, si ricongiungono.

Così, i lavoratori della terra d’Alfina, (che in chiave allegorica sono quelli di tutto il mondo) attraverso la mise-en-scène del rito funebre e la sua spettacolarizzazione celebrano non il trionfo della morte ma quello della vita contadina nell’ottica di una sua resurrezione finalmente avulsa dallo spettro del capitale o quanto meno dalle sue deviazioni. In questo senso, la riproduzione visiva del canto liturgico è volta a veicolare allo spettatore il senso ultimo e fondamentale di questa morte apparente, l’urgenza di ripensare e riprogrammare il legame dell’uomo con la terra prima che scompaia irreversibilmente: “quando vorrete tornare indietro e cercarla, quando capirete il prezioso lavoro che attraverso i millenni ha fatto senza pretendere mai niente, non la troverete più”.

Già in Le meraviglie, opera emblematica della regista fiesolese, vincitrice del Grand Prix della Giuria al Festival di Cannes nel 2004, la restituzione dell’immaginario rurale riesce a mettere in luce, seppur non dichiaratamente, certe contraddizioni della contemporaneità ragionando, sull’onda pasoliniana, intorno ai processi di massificazione, in riferimento allo spettacolo e la sua fruizione, senza mai tralasciare le criticità del rapporto uomo-natura. A un certo punto del racconto, il capofamiglia apicoltore Wolfgang dichiara che “non si piantano le pizze”, tracciando profeticamente un ponte che parte dalle campagne di Grosseto e arriva fino al viterbese. In Omelia vengono ribadite le tematiche care a tutta la filmografia della Rohrwacher (da Corpo Celeste a Lazzaro Felice) attraverso uno sguardo che è prima di tutto poetico ma che sconfina, inevitabilmente, nella riflessione politica. “Quando l'uomo classico sarà finito e saranno morti tutti i contadini e gli artigiani, quando non ci saranno più le lucciole le api e le farfalle, quando l'industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita”, nella spazialità del corto e al di là dello schermo risuona la profezia de La rabbia: ancora una volta una coesistenza inscindibile tra poesia, azione intellettuale, e cinema.

L’allestimento scenico sperimenta, rispetto alle opere precedenti, un taglio stilistico nuovo, grazie alla collaborazione con l’artista visuale JR, muovendosi tra arte performativa, arte urbana, realismo documentaristico e fiction. Con Quattro strade, cortometraggio realizzato nell’aprile di questo anomalo anno, le modalità espressive afferiscono invece alla sfera del linguaggio filmico amatoriale. L’occhio magico della macchina da presa riesce a scrutare le vite altrui, le vite dei vicini, laddove il corpo della regista non può arrivare. Il corto nasce dall’utilizzo di un materiale ormai inconsueto che avrebbe potuto non riprendere gli alberi del viale che corre verso est e arriva alla casa di Enza, la contadina solitaria. Che  avrebbe potuto non trasformare in immagine il colore viola di certi iris che sembrano quelli del famoso quadro di Van Gogh. Invece la registrazione della vita avviene, si deposita sulla “pellicola scaduta” per diventare visione cinematografica. La seconda strada porta alla casa del poeta-contadino Claudio che si prende cura dei cani degli altri e ogni giorno raccoglie dei fiori in un posto segreto e li mette sul tavolo. Ma se si cammina verso nord “non c’è una strada ma un sentiero anarchico in mezzo al campo e in fondo una grande fattoria”. Qui vi abitano Emanuele e Alessandra con la propria “tribù”.

In Quattro strade ritornano i nomadi-attori che danzano intorno al fuoco, ritornano i contadini di Omelia colti, questa volta, nella loro dimensione privata, negli intervalli rubati alla quotidianità. Una quotidianità che però assume i connotati dell’universale perché insegna allo spettatore “la poesia dello stare al mondo”. Il tema della lotta sociale lascia il posto a una narrazione filmica in cui la natura obbedisce a un nuovo paradigma; quello di un reale che, nonostante le antinomie, deve avere a che fare con l’illusorio. Come recita la sceneggiatura di un vecchio film australiano “La vita è sogno, nient’altro che un sogno. Il sogno di un sogno”. La quarta strada inizia e finisce lì.