Tratto dal romanzo di Nicholas Pileggi Il delitto paga bene (1986), Quei bravi ragazzi è basato sulla storia vera di Henry Hill, un italo-irlandese di Brooklyn, personalità di spicco nell’ambiente mafioso newyorkese a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, poi prezioso collaboratore di giustizia nel decennio successivo. Martin Scorsese opera una (ri)definizione del genere raccontando la storia di un gangster spogliata da ogni retorica del gangster-movie. Al centro della scena un nutrito parterre di ‘bravi ragazzi’ le cui vite gravitano attorno alle ‘rassicuranti’ gerarchie mafiose. Esistenze pilotate che nutrono il sistema dall’esterno incrementandone esponenzialmente il potere senza farne mai veramente parte. Un desiderio di appartenenza - in questo caso ad un gruppo etnico che non è quello di origine - che nasce da un’atavica paura dell’esclusione, un netto ma sottile confine fra il mondo civile e quello criminale delimitato dal peccato originale del tradimento.
Come in Toro scatenato il racconto di formazione dell’eroe dannato parte dalla fine, o pressappoco, per poi tornare indietro a ritroso. L’(anti)eroe non è qui un pugile talentuoso, un padrino predestinato o un immigrato cubano che riuscirà grazie alla sua spregiudicata intelligenza a diventare il capo dei capi. Henry è un outsider senza via di scampo che fin dall’inizio sa che non potrà mai entrare a far parte della Famiglia a causa delle sue origini irlandesi. Partendo da questa amara (auto)consapevolezza di fondo, l’importante è comunque non arrendersi e cercare con ogni mezzo a disposizione di non rimanere “una normale nullità e vivere tutta la vita come uno stronzo qualsiasi”. Scorsese opera per contrasti e da vita cinematografica all’incredibile personaggio di Hill - nella realtà storica un simil-soggetto lombrosiano emerso dalle pagine de L’uomo delinquente - attraverso gli ammalianti occhi blu e la fisicità statuaria di Ray Liotta.
Due ore e mezza di messa in scena estetizzante in grado di restituire, al netto di qualsiasi manuale critico, il vero spirito del cinema secondo Scorsese: dialoghi irriverenti, colonna sonora accattivante, sicurezza del tocco registico - memorabile il piano sequenza in steadycam dei coniugi Hill che passano attraverso le cucine di un locale per raggiungere il loro tavolo in prima fila - e alternanza sistematica fra valori morali antitetici come trasgressione e senso di colpa. In questo senso è la protagonista femminile Karen Hill/Lorraine Bracco - la futura analista del compianto boss in crisi esistenziale Tony Soprano/James Gandolfini - il personaggio sintetizza al meglio la poetica del film. La donna, ben lontana dalle proiezioni poetiche e salvifiche della vittima inconsapevole, è costantemente divisa fra desiderio di rottura e senso di rimorso, abnegazione per il bene del nucleo famigliare e rigetto della monotonia borghese, amore disperato e autoconservazione.
Con lo sguardo costantemente teso al cinema d’arte europeo degli anni Cinquanta e Sessanta, Scorsese chiede a Pileggi - con cui collaborerà nuovamente cinque anni più tardi allo script di Casinò (1995) - di fare propri i capolavori della Nouvelle Vogue. La sceneggiatura di Quei bravi ragazzi attinge a piene mani dalle opere dei maestri francesi come Fino all’ultimo respiro (1960) e Jules e Jim (1962) desumendone quelle peculiarità che gli hanno resi pietre miliari della storia del cinema: dal largo utilizzo della voce fuori campo - che assurge a personaggio a sé stante - alle brusche e spiazzanti digressioni diegetiche.
In Goodfellas - titolo originale - Scorsese libera la sua dirompente passione musicale istituzionalizzando il proprio metodo di assemblaggio della colonna sonora. Un amore nato quando ancora bambino si ritrova confinato, a causa delle frequenti crisi d’asma, nella sua cameretta affacciata su Elisabeth Street si intratteneva contemplando il rumoroso spettacolo della strada. Dall’esordio al lungometraggio in Chi sta bussando alla mia porta (1969) - che deve il suo titolo a una canzone dei The Genies, un gruppo semi sconosciuto di Long Beach - emerge il rifiuto dell’approccio pleonastico: canzone romantica, scena d’amore. Alle sonorità del rock contemporaneo e lo stile doo-woop si alternano le voci di Tony Bennett (Rags To Riches) e Aretha Franklin (Baby I Love You). Tutto sommato “questi personaggi, per quanto possono essere marci, restano degli esseri umani e perciò sono degni di Bach”, o almeno dei Cream (Sunshine of Your Love).
Un film nato sotto una buona stella - al contrario del precedente e travagliatissimo L'ultima tentazione di Cristo, ricordato più per le polemiche suscitate che per i contenuti - la cui vera forza risiede in un cast in stato di grazia. Dalle future guest star de I Soprano - Lorraine Bracco e Micheal Imperioli - al Premio Oscar nella categoria Miglior attore non protagonista per Joe Pesci, al caratterista Paul Sorvino. Attraverso un gioco di specchi il figlio di Little Italy torna alle sue origini per illustrarci le dure leggi della vita di quartiere scandita dalle ricorrenze del calendario importato dalla vecchia Europa. Grazie allo sfaccettato gioco di flashback, la New York di Goodfellas non è più l’alienante metropoli in stato di decomposizione avanzato che emerge da Taxi Driver (1976), ma torna ad essere quel meraviglioso e frenetico parco giochi dove i “bravi ragazzi” possono ancora avere (quasi) tutto.