“Woody Allen fa sempre lo stesso film? Dato e non concesso che ciò sia vero, dovremmo soltanto ringraziarlo”. (Franco La Polla)
Il cinema, da sempre soggetto esso stesso dei film di Allen, evocato, citato, saccheggiato, imitato e omaggiato nelle sue pellicole, diventa a tutti gli effetti un elemento cardine attorno e attraverso al quale passa tutta la vicenda di questo Rifkin's Festival, il suo ultimo lungometraggio.
Durante una seduta dall'analista, Mort Rifkin (Wallace Shawn), aspirante scrittore e professore di storia del cinema, sta ricapitolando quanto accaduto in un viaggio in Spagna con la moglie Sue (Gina Gershon). Viaggio essenzialmente di lavoro, perché Sue fa parte dell'ufficio stampa che segue la presentazione al Festival di San Sebastiàn dell'ultimo film di Philippe, un giovane promettente regista francese (Louis Garrel). Il viaggio insieme, come già in Midnight in Paris e nel precedente Un giorno di pioggia a New York, sarà l'occasione per portare il loro rapporto fino ad una crisi definitiva.
Un ennesimo tourbillon de la vie di riconoscibilissima marca alleniana, nel quale il protagonista inciampa in una realtà insoddisfacente e piena di frustrazioni, tra donne irraggiungibili, occasioni perse e brevi e illusorie fughe dalla realtà. Così, il cinema, meta preferita di Allen per fuggire dalle difficoltà del reale, fra sogno ed evasione, diventa anche qui il luogo immaginario di un mondo possibile. Mort Rifkin sogna, si astrae spesso da quello che gli succede attorno e immagina di trovarsi proiettato dentro alle pellicole che ama di più, alcuni grandi classici che hanno segnato la storia del cinema, da Quarto potere a Jules e Jim, da Persona a Un uomo e una donna, dal Il settimo sigillo a L'angelo sterminatore.
Siamo davanti a un film che scorre via con una levità sorprendente, nel quale Allen (insieme ad un ispiratissimo Vittorio Storaro alla fotografia), si diverte a rimettere in scena i film che più ha amato, trasformandoli in brevissimi e geniali sketch: ma davvero la sfrontata e argutissima ironia con cui decide di farlo incanta, per freschezza, inventiva e spirito dissacratorio. Il cinema come antidoto alla morte e come inno alla vita, come già in Hannah e le sue sorelle, dove la pacificazione di un angosciato protagonista ad un passo dal suicidio avviene entrando al cinema o come in Basta che funzioni, dove il panico notturno si calma solo davanti ad un film, perché se il tema della morte è presente nel suo cinema, più o meno sotto traccia, fin dalle sue origini, la capacità di far convivere levità e dramma, infelicità e amore per la vita, disillusione e fiducia nel futuro è uno dei cardini fondamentali di tutto il cinema di Woody Allen.
Riuscire a tenere insieme, in un difficilissimo equilibrio, tutte le contraddizioni esistenziali, filosofiche, morali e psicologiche insite nella sua visione del mondo. Ed ecco allora la costruzione del suo sofisticatissimo universo poetico fatto di costanti micro variazioni su temi ricorrenti, dove i temi restano talvolta più nascosti, altre volte compaiono in modo più evidente. Talvolta le variazioni hanno sorpreso e lasciato perplessi gli spettatori, si pensi ai film più marcatamente bergmaniani di Allen come Settembre, Interiors, Un'altra donna o in epoca più recente ai pur magnifici Sogni e delitti o Vicky Cristina Barcelona, ciascuno in qualche modo “colpevole” di essere troppo poco alleniano.
Altre volte le variazioni seguono percorsi più immediati e riconoscibili e si offrono allo spettatore proprio nel modo in cui egli si aspettava, ed ecco che in film come Basta che funzioni o Harry a pezzi tanta parte del suo pubblico più fedele ha creduto di ritrovare l'Allen delle origini, quello di Io e Annie e Manhattan, da sempre considerati (comprensibilmente anche se è un approccio critico che gli ha fatto più male che bene) le pietre angolari per valutare ogni sua pellicola successiva. Altre volte le variazioni sono molto più sofisticate, sottili, impercettibili, offrendosi (solo?) come una variazione di variazioni, una sorta di ripetizione di passaggi già ascoltati, scene, personaggi e situazioni che si richiamano a distanza, imitandosi, facendosi eco, ma sempre con elementi nuovi, stilistici o narrativi che siano.
Questa enorme e raffinatissima rete di variazioni costruita in più di cinquant'anni di carriera non può non lasciare senza fiato osservandola dall'alto, nella sua totalità, cercando di coglierne la complessità e quel senso di profonda coerenza dentro all'estrema frammentazione della sua struttura.
Così la domanda con cui si conclude Rifkin's Festival, “allora, ha qualcosa da dirmi dopo tutto quello che le ho detto?” rivolta dal protagonista al suo analista (con una inquadratura finale identica a quella iniziale), potrà certamente essere letta (ed è stato fatto) in una chiave quasi testamentaria, come di un regista che ha ormai detto tutto quello voleva e che poteva dire (e negli ultimi anni non è stato nemmeno facile dirlo visto il vergognoso ostracismo con cui è stato trattato per le ben note vicende personali) ma concludere con una domanda è anche il modo più aperto e fertile per riprendere un discorso che non ha mai fine, perché le domande sono ancora tutte lì, sul tavolo, inevase, senza risposta, ed è proprio nell'atto della domanda la chiave di tutto. Interrogare la vita attraverso il cinema (e il cinema stesso attraverso il cinema, ma questa è un'altra storia), punto di partenza di una riflessione su se stesso e sul mondo che prosegue da tutta una vita, mostrando in controluce una tempra intellettuale di impressionante vigoria, e punto di arrivo, fra i più alti pensabili, di una carriera cinematografica di indomabile e inesausta genialità.