Presentato alla 78esima Mostra di Venezia, Spencer di Pablo Larraín è “una favola da una tragedia vera”, dominata dai piani di un’eroina in frantumi e scossa dai suoi traumi irrisolti. Intrappolata nella residenza-prigione di Sandringham, nel Norfolk, la principessa Diana (una mimetica Kristen Stewart) trascorre la vigilia di Natale del 1991 coi fantasmi di una vita e gli altri regali britannici. Le distanze emotive tra pari sono incolmabili e inafferrabile è il movimento di Lady D, sfrigolante e incontinente, con addosso il peso del tradimento del principe Carlo, le nostalgie di un passato idealizzato e l’irrefrenabile brama di sfuggire allo spettacolo immobile della nobiltà di palazzo.
Pablo Larraín racconta le fughe e i ricongiungimenti di un personaggio tormentato attraverso cui emerge il portato socio-culturale di un intero paese, costruisce un’identità schizofrenica, ingabbiata da una ripresa che alterna movimenti spasmodici, carrellate e una sovrabbondanza di piani autoriferiti ed “egotisti”; tutto intorno sfilano corridoi, spazi aperti, interni claustrali, stanze e simulacri del potere, alberi e prati, il tumulto interiore di una vita sbilenca e di una storia privata che trascolora nella mitologia pubblica.
Fin da Fuga, fragili e inquieti sono i suoi uomini e le sue donne, compiaciuti e carichi di narcisismo, al contrario, appaiono i suoi quadri visionari tormentati e irrisolti. Gli ultimi ritratti al femminile di Jackie e Diana Spencer, con l’intermezzo atipico di Ema, personaggio autoreferenziale senza un’evoluzione, sviluppano un raccordo stilistico e narrativo che srotola, per mezzo di piani sequenza a inseguimento e visioni immaginifiche, gli incubi di una nazione intera, attraverso un volto, un oggetto, spesso un fantasma: gli Stati Uniti e il completo rosso Chanel di Natalie Portman in Jackie, la cittadina cilena di Valparaiso presa d’assalto dal corpo sinuoso di Ema che imbraccia un lanciafiamme, l’Inghilterra reale, annegata nel gotico nebbioso del Norfolk, dove le perle di lady Spencer scivolano via tra i perduti ricordi d’infanzia; giro di vite di madeleine in cui si perdono, per poi ritrovarsi attraverso improvvisi shock, doppi e rifrazioni dell’anima.
Così, la principessa del Galles rifiuta la noblesse oblige, sfugge alle ritualità di palazzo, vive sull’abisso della bulimia, sospinta dal tortuoso recupero di una dimensione familiare infranta. Per i tre giorni di permanenza nella residenza di Sandringham House, pullulante di eleganza e sofisticati cerimoniali, è visitata dal fantasma di Anna Bolena, resuscitato dal volume che trova nelle sue stanze e, mentre respinge il microcosmo finto e ovattato, comprende che tutto ciò che la circonda è una prigione di vetro illuminata a giorno dai flash dei fotografi accampati vicino le sue finestre.
La scena è dominata dal viso della principessa, dai suoi scatti e dalle sue torsioni, dall’amore protettivo nei confronti dei figli e dalla dolorosa consapevolezza che lei è “un insetto nel piatto”, “calamita per la follia degli altri”, fantasma che danza nel crepuscolo, ingozzandosi di cibo e rigurgitando le perle del potere che sono un ricco feticcio ma anche il correlativo oggettivo del tradimento coniugale.
Tra la favola magnetica e l’incubo freddo e psicanalitico, Spencer è una reinvenzione poetica di straordinaria bellezza, raccontata come una divagazione tra l’onirico e la fantasticheria cronachistica, capace di aprire un varco tra la dimensione umana in cui è calata la personalità algida e problematica di Lady D e le rifrangenze ossessive di un passato (ri)vissuto attraverso una danza di simulacri.