Cosa significa parlare oggi di Spike Lee e di cinema afroamericano? Vuol dire confrontarsi con una cinematografia innovativa e originale, caratterizzata da un forte intento sociale che fa della settima arte il punto di partenza per riflessioni più ampie sul contesto multiculturale contemporaneo e le grandi questioni irrisolte nel panorama statunitense, contraddizioni e problematiche specchi di fenomeni analoghi che si ripropongono ad esempio, su diversa scala, nei singoli scenari europei.
L’odierna produzione americana vede una sempre più fiorente circolazione di opere inerenti il difficile rapporto tra bianchi e neri su territorio nazionale. Ma se un tempo il punto di vista era quasi esclusivamente quello maggioritario (eccezion fatta per pochi autori che sono riusciti a raggiungere un pubblico crescente e eterogeneo, pur se con risultati altalenanti e comunque non duraturi), oggi nomi quali Lee Daniels, Dee Rees, Barry Jenkins, Ava DuVernay e Jordan Peele sono solo i più noti della new black wave, un ampio gruppo di registi neri riconosciuti e premiati a livello internazionale.
Autori che partecipano a festival e riempono le sale con film finalmente sdoganati dal circuito elitario; sono eredi più o meno diretti dell’opera di Spike Lee apripista di una nuova coscienza artistica, etica e al contempo innovatrice nei contenuti quanto nello stile, capace di guardare al contesto locale con sguardo critico e non elegiaco, non condizionato da schematici preconcetti o aprioristici schieramenti ideologici. Questi artisti stanno rivoluzionando il modo di raccontare i neri e l’America, proponendo un’alternativa alla visione tipicamente WASP del cinema hollywoodiano che ne scardini dall’interno i modelli esistenti, rielaborandone stili e linguaggi che alimentino un nuovo immaginario collettivo più consapevole ed equilibrato.
Certo favoriti dalla parentesi progressista della presidenza Obama e dall’attenzione mediatica internazionale suscitata da recenti episodi di violenza e discriminazione razziale, oltre che dal nazionalismo trumpiano, i fortunati Precious, Prossima fermata Fruitvale Station, Moonlight, XIII emendamento, Scappa – Get Out, Mudbound e BlacKkKlansman sono gli esempi più efficaci della nuova tendenza afrocentrica che guarda alla stato della nazione senza più vittimismi, in una prospettiva democratica che ne influenzi e rinnovi la mentalità. Ma la strada intrapresa non è semplice, come manifestano le ancora vive reticenze dell’establishment. Basta guardare alla recente premiazione dei Golden Globes e alla sorte dell’ultimo fortunato lavoro di Lee, feroce atto d’accusa verso la politica del nuovo Presidente e insieme accorato grido d’allarme sulle conseguenze a cui l’occidente sempre più xenofobo sta andando incontro.
La sconfitta di un film come BlacKkKlansman – non per forza BlacKkKlansman – è il segno di una linea precisa dell'industria culturale che ancora tende a premiare gli stereotipi, espressione di una rimarcata volontà di non favorire troppo un cambiamento in atto che ne modificherebbe l’assetto interno. Ne sono esempi il biopic sul trasgressivo e iconico Freddie Mercury, ormai parte dell’immaginario pop occidentale, reso vittima di se stesso come da tradizionale rappresentazione del musicista sul grande schermo, o Roma, il cui sguardo consolatorio sul Messico degli anni Settanta, oggi Paese vittima prima dell'intolleranza trumpiana, risulta più conciliatorio rispetto all’impietosa autorappresentazione dell’ultimo lungometraggio del regista di Atlanta. Allo stesso modo Green Book, classico buddy movie à la Sidney Poitier che perpetua un’immagine artefatta di afroamericano, talmente colto e raffinato nei modi da risultare quasi artefatto, irreale.
È ancora questa la concezione dominante nell’immaginario bianco: un nero che proprio perché tale deve farsi accettare, abbattendo i pregiudizi a lui rivolti attraverso doti innate oppure affinate nel tempo ma puramente intellettuali, perché «ci vuole coraggio per cambiare il cuore della gente». I grandi cambiamenti promessi, sperati, tentati ancora non si sono realizzati e a dimostrarlo è l’imminente Se la strada potesse parlare, adattamento cinematografico del romanzo dello scrittore e intellettuale nero James Baldwin sul difficile amore tra due giovani afroamericani negli anni Settanta, lui ingiustamente carcerato, lei in attesa di un figlio. Una vicenda comune allora come oggi nel cuore del Paese della libertà e dell’uguaglianza professata a più voci, ma in definitiva riservata solo ai pochi per i quali il sogno americano non è diventato l’incubo americano.