In sala da alcuni giorni, il film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi ha un compito difficile: offrire il proprio cinema osservazionale e contemplativo, fatto di momenti operosi ma lenti, capaci di scolpire il tempo, agli spettatori meno abituati a questo approccio poetico e cosmogonico. Viste le reazioni molto forti – nel bene e nel male – che le persone stanno avendo in sala, siamo andati a recuperare un po’ di reazioni critiche al film e le abbiamo brevemente antologizzate a seguire. Si apra il dibattito. 

Ricordiamo intanto che sul film è uscito un intera sezione speciale della rivista Filmidee, che potete leggere free online, e che contiene anche uno scritto di Alessandro Stellino sulla “leggenda” della sala. Sulla stessa testata, Daniela Persico scrive:

“Lontano dal tempo e dallo spazio, c’è l’incipit di un’opera che si articola come una sorta di genesi, un processo creativo messo in moto dall’uomo in una danza avvolgente che spazia dal principio del mondo alla sua fine, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, dalla passione del singolo alla resistenza di una società, senza mai dimenticare la dimensione concreta e laica da cui tutto si genera: l’ostinato lavoro dell’uomo. Se è l’incavo nero di una grotta arcaica, da cui emerge il marmo che darà vita al Duomo di Milano, il luogo in cui ancora una volta tutto ha origine, è nei gesti concreti di uomini e donne che si sperimenta la lotta contro il tempo e il suo incessante atto di erosione. Quello atmosferico che corrode le statue sulle guglie del Duomo, intente a compiere il loro viaggio verso la continua rinascita grazie all’incessante restauro di un monumento simbolo della città (nell’episodio che ha dato vita a un film a se stante, L’infinita fabbrica del Duomo, sorta di spin-off rispetto a questo progetto più complesso e articolato). Quello della Storia che riduce ogni alterità, schiacciando i popoli che tengono in vita la loro cultura, come accade nella riserva Lakota che ha difeso con la forza i propri confini, ma è destinata a una lenta dissolvenza della propria cultura. Quello della società che isola e separa il lavoro artistico, condotto con la cura e la consapevolezza dell’artigiano, in tempi in cui domina il mercato globale, facendo risultare due “angeli” stranieri (e non per nazionalità ma per spirito) i musicisti Felix Rohner e Sabina Schärer intenti nella costruzione dell’Hang, strano strumento musicale dalle (ri)percussioni profonde. E infine il tempo che risuona in ogni individuo che sogna la vita eterna, come la minuscola medusa dalle proprietà rigeneratrici scoperta in Giappone da Shin Kubota, scienziato con la passione per il canto, che ha dedicato la sua esistenza allo studio del ciclo immortale dell’organismo”.

 

A sua volta, Fabrizio Tassi su Cineforum sembra rispondere con alcuni dubbi:

“Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno realizzato un’opera molto ambiziosa, che sconta un problema fondamentale. Il film non fornisce una “mappa” interna al film (logica, strutturale, narrativa, emotiva, quello che volete) capace di orientare lo spettatore tra le immagini, le storie, i contesti diversi, e (non) lo fa con un’ostinazione così rigorosa che rischia di rendere l’opera troppo ermetica e cerebrale, come fosse un rebus da risolvere, più che una sinfonia visiva da ‘ascoltare’. L’invito, chiaramente, è quello di abbandonarsi alle risonanze, alle assonanze, alle rime interne, è quello di indicare dove guardare, piuttosto che mostrare o svelare la realtà. Ma lo spettatore rischia di naufragare, di rimanere appeso alla suggestione di questa o quella immagine, senza che ci sia un movimento, uno sviluppo del film, a parte gli ultimi intensi 15 minuti in cui ogni cosa sembra trovare il suo posto.
La mappa in realtà è nascosta nel titolo, in quella spira mirabilis che è «simbolo di perfezione e di infinito… una spirale logaritmica il cui raggio cresce ruotando e la cui curva si ‘avvolge’ intorno al polo senza però raggiungerlo». Perché i frammenti di storie, suggestioni, luoghi diversi (da Wounded Knen a Berna, da Milano al Giappone) sono uniti da un andamento a spirale, dal fuori al dentro, dal basso all’alto (e viceversa), passando e ripassando attraverso immagini e suoni che sembrano girare in tondo e che in realtà ci portano verso un punto che non possiamo raggiungere”.

 

Dubbi articolati anche da Raffaele Meale su Quinlan:

“Il tema (dell’immortalità, ndr) torna in ciascuna delle parti di cui è composta l’opera: è la capacità di non morire delle meduse il motivo dello studio dello scienziato nipponico Shin Kubota (anche improvvisato cantante, come dimostra in una sua apparizione televisiva), così come i lakota cercano di resistere a quell’estinzione cui li ha condannati la società occidentale; ma anche le statue del Duomo vengono donate di volta in volta a nuova vita per garantir loro l’eternità. C’è poi la voce fantasmatica di Marina Vlady, che accompagna immagini amatoriali reinterpretando Jorge Luis Borges. Quale testo? L’immortale, ovviamente. In questo gioco infinito di sovrapposizioni i due registi possono dimostrare una volta di più la potenza della loro visione, passando da immagini al microscopio a panorami immensi, divertendosi a mettere in contrapposizione i diversi formati, autocitandosi e utilizzando materiale di repertorio.
La messa in scena di Spira mirabilis è stordente, annichilisce lo spettatore spingendolo verso la poltrona e tenendolo lì, asservito al dominio dell’immagine. È una sensazione appagante quella di lasciarsi avviluppare dall’architettura visiva del film, trasportati dalle coste del Giappone a Wounded Knee, scenario di uno dei più atroci massacri di nativi da parte delle truppe statunitensi (nel 1890) e luogo di rivendicazione dei Sioux, che sognarono negli anni Settanta di poter creare lì una nazione Oglala, staccata da Washington. Un sogno destinato a essere ridotto in cenere, ovviamente, ma che cova ancora – secondo D’Anolfi/Parenti – e continuerà a covare per l’eternità. Tra similitudini, associazioni di idee e gioco di contrapposizioni, Spira mirabilis potrebbe a sua volta durare all’infinito, e assume quindi una forma astratta, priva di una reale consistenza narrativa. Affidandosi però esclusivamente alla metafora e al flusso di immagini i due registi smarriscono parte del potenziale del film, sorretti da un’ambizione esasperata: non si tratta più di elevare a universale un particolare, ma di accumulare universale a universale, cercando sempre la quadratura del cerchio attraverso il lirismo, la poesia visiva. Se nessuno può mettere in discussione la confezione, una volta di più scintillante, è proprio nelle profondità del senso che si avvertono crepe preoccupanti: elegia del tutto, di ogni cosa, Spira mirabilis rischia di risultare ben più debole dei suoi predecessori, infiacchito da velleità autoriali che nella precedente filmografia erano sempre ricondotte allo scopo ultimo del documentario. Quello scopo qui sembra venire meno, e si permane nel limbo di un cinema che si vorrebbe aulico e terraceo allo stesso tempo, ma non si sa gestire fino in fondo. L’occasione dunque appare in gran parte sprecata, tra calligrafismi della voce fuori campo e una verità che viene fuori solo a tratti – il ricordo del massacro, lo stupore di fronte alla vita invisibile agli occhi, il nitore di alcuni filmini di famiglia – ma non viene mai realmente sorretta dalla struttura del progetto”.

 

Gli risponde invece Gabriele Gimmelli su Doppiozero:

Spira mirabilis richiede allo spettatore una partecipazione intensa e continuata, che può persino respingere, ma che alla fine viene ampiamente ripagata. «Noi lavoriamo in modo più arcaico», dicono a un certo punto due personaggi del film, i costruttori di strumenti musicali Felix Rohner e Sabina Schärer, con una frase che potrebbe suggellare l’opera dei due cineasti. Se i precedenti lavori della coppia si presentavano come esplorazioni/decostruzioni di un ambiente ben definito (l’aeroporto di Malpensa ne Il castello, il poligono militare di Salto di Quirra, in Materia oscura, il Duomo di Milano ne l’Infinita fabbrica del Duomo, nato proprio da una costola di quest’ultimo progetto), lo sguardo qui si allarga all’Ambiente tout-court, sotto forma degli elementi primari di acqua, terra, aria, fuoco, etere. Il film procede per ellissi, in una continua tensione dialettica fra la concretezza (mani che lavorano, modellano, manipolano) e astrazione (i pattern quasi geometrici degli organismi visti al microscopio), mentre lo spettatore è costantemente chiamato a ricomporre in un insieme coerente una serie di frammenti – taluni, peraltro, di inusitata bellezza. In questo continuo susseguirsi di nessi e legami, Spira mirabilis rivela man mano la propria vocazione di opera-mondo, incentrata appunto sull’incessante prodursi/distruggersi/rigenerarsi della materia. Non è un caso, credo, che le ultime immagini del film siano quelle di un fuoco acceso, ossia l’elemento che, nel suo essere allo stesso tempo in continuo divenire e sempre uguale a se stesso, rappresentava già nell’ontologia eraclitea il principio e la fine di tutte le cose”.

 

Infine, il decano della critica militante, Roberto Silvestri, sul blog che scrive insieme a Mariuccia Ciotta:

“Fuoco, terra, aria, acqua, terra, etere. Il cinema, presocratico ma anche quello “platonico”, si fa con gli elementi primordiali come attori che, come sappiamo bene in questi giorni di terremoti, guerre, tsunami, catastrofi ecologiche e buchi d’ozono, sono indocili a considerarsi “non protagonisti”. “Il fantastico nasce dal naturale”, direbbe Robert Bresson. Primo film italiano in concorso, Spira Mirabilis non presuntuoso ma ambizioso, prova a collegare tutti questi elementi in una suite visiva che tende alla sinfonia, non proprio orecchiabile, magari post dodecafonica, a consonanza non garantita. Come se si dipingesse un murales sonoro con suoni “concreti”, vivi. Cinque storie parallele che si parlano, si intrecciano, si fondono. Eppure la geografia è “posteuclidea”. Kyoto/Shirahama, Parigi, Berna, Milano, Sud Dakota. Cosa mai possono avere in comune? Marina Vlady recita integralmente, non sempre fuori campo, il racconto di Borges L’immortale. Se nulla è reale e l’uomo è reale, l’uomo è nulla e dunque è immortale. I nativi Sioux raccontano la resistenza al materialismo volgare del popolo Lakota, da Wounded Knee a oggi: “vedi quella montagna, per noi quello è un Duomo sacro, sia gotico che barocco, sia postmoderno che neoclassico. Anche perché sotto vivono i corpi morti dei ribelli che lottarono per la nostra indipendenza”. Gli artigiani che tutelano il Duomo (gotico) di Milano riportano al bianco originale le statue deturpate dall’inquinamento. Le rendono eterne”.