Quando Sussurri e grida fu proiettato a Stoccolma nel 1972, accorse un pubblico ristretto e selezionato ma l’anteprima americana in un cinema d’essai newyorchese si rivelò un successo clamoroso, grazie anche ai consensi raggiunti oltreoceano l’anno precedente dal cineasta svedese con L’adultera. Già da tempo proiettato nel firmamento cinefilo extraeuropeo e sempre meno vincolato alle proposte della Svensk Filmindustri, Bergman decise di sfruttare lo studio della Cinematograph AB di Fårö per ambientare il suo dramma familiare in una villa a Mariefred.

Se a giostrarsi nell’antica dimora immersa nel rosso sono una donna moribonda con la domestica e le due sorelle al capezzale, gli elementi di raccordo emotivo non sono attori in carne e ossa ma il tempo e la musica. Il primo produce la riviviscenza del ricordo e descrive l’evoluzione sentimentale dei protagonisti, scandito dai rintocchi dell’orologio o materializzato attraverso flashback evocativi, la seconda, con la stessa istanza narrativa usata anche in Come in uno specchio, supplisce all’afasia del linguaggio con la Suite in do minore n. 5 per descrivere la riconciliazione apparente tra le sorelle Karin e Maria. Le sinfonie scelte, il rosso acceso per gli arredi e le dissolvenze e l’utilizzo del tempo come arché della coscienza, non sono altro che precise scelte espressive per esplorare l’animo femminile, al confine tra patologia clinica e malattia dell’anima.

È in questo modo che Bergman riesce a mettere a fuoco le dinamiche e i conflitti provenienti dai traumi del passato, celebrando un disperato cerimoniale femminile in uno spazio liminale tra la vita e la morte, organizzato secondo rapporti di simmetria assiologica: Agnes, la sorella in fin di vita, è come la sua devota domestica Anna, affamata d’amore umano e divino, mentre Karin e Maria appartengono alla schiera delle peccatrici senza Dio. La prima ha il gelo nell’anima e non sa volere bene, la seconda è annientata dalla sua stessa natura narcisista e indolente; entrambe col fardello di un matrimonio fallito alle spalle, si scontrano con i ricordi brutali imbrattati di sangue e sporcati dall’adulterio.

Immerse nella più desolante solitudine, le protagoniste rivivono vite sbagliate e scandali privati, raccontate dai volti in primo piano che, come in molti film di Bergman, hanno una valenza fisiognomica (messa di fronte allo specchio, Maria è psicanalizzata dal medico amante che imputa le sue rughe d’espressione alla sua indifferenza). Ritorna, in modo brutale e inquieto, il tema dell’incomunicabilità che vanifica la parola, sostituita dalle sinfonie o dalle lettere vergate da Agnes sulle pagine del diario, nel suo personale itinerario di sofferenza condiviso con Anna prima di mutarsi in elemento medianico da un altro mondo.

Come nella trascendenza mistica che illumina i penetralia dell’infanzia in Fanny e Alexander, Agnes, che non è mai riuscita a infondere vita nella sterilità esistenziale delle sorelle, richiama le sue “donne in attesa” (nel film del 1952 erano quattro donne ad attendere i loro mariti nella casa sul lago) da un aldilà privato rischiarato da lampade a petrolio, come un sancta sanctorum in cui iniziare un dialogo coi fantasmi di una vita. Di fronte ad Agnes rimane solo Anna, la più devota, mentre Maria e Karin fuggono perché in realtà non sono mai state in grado di amare la sorella e forse neanche se stesse.

Concepito in un “lungo attacco di malinconia” come affermato da Bergman, il lungometraggio incastona in una tessitura psicanalitica atti strazianti e pensieri urlati, immagini iconografiche (come la Pietà composta da Anna e Agnes nelle veci di madre e figlia), composizioni di volti in primo piano e indagini sentimentali sul lutto e sulla resilienza del rimosso.