Il fascio di luce e immagini in movimento di un proiettore Super 8 colpisce la mano di un bambino che usa i palmi come uno schermo in miniatura, impaziente di vedere il risultato delle sue riprese. Il cinema, Steven Spielberg lo tiene in pugno, idealmente e letteralmente, nel suo nuovo film, The Fabelmans.

The Fabelmans inizia proprio da qui, dalla prima timorosa esperienza di spettatore di Spielberg bambino, o meglio del piccolo Sammy Fabelman, suo alter ego. L’eterno Peter Pan del cinema americano, dopo anni di tentativi e di ripensamenti, ha deciso di raccontare come (non) è cresciuto. Nel suo film più divertente (dove, merito anche dell’apporto in sceneggiatura di Tony Kushner, crea un ponte con un umorismo ebraico dalle radici profonde che arriva fino a Mel Brooks e Woody Allen) i protagonisti sono lui e la sua famiglia, circondati dal cinema visto, fatto e immaginato dal regista tra i sette e i diciotto anni.

Prima tappa il New Jersey degli anni Cinquanta. È Natale, e la casa dei Fabelman è l’unica non illuminata e addobbata in quel mondo wasp dove gli ebrei sono sempre, più o meno, fuori posto. I Fabelman non sono particolari solo da questo punto di vista. In quattro tra fratelli e sorelle, hanno per madre (Michelle Williams) una pianista virtuosa che ha abbandonato la carriera per crescere i figli e per padre (Paul Dano) un uomo buonissimo e geniale, pioniere dell’informatica, più bravo a spiegare il funzionamento di una memoria artificiale che a interagire con gli esseri umani. Sembrano la famiglia perfetta, la versione yiddish di Happy Days. Ma, lo sappiamo, le cose non sono mai così perfette come sembrano.

La fascinazione di Sam (da adolescente lo interpreta Gabriel LaBelle, copia carbone dello Spielberg che compare nelle vecchie foto di set di DuelLo squalo) per il cinema è già un segno della sua particolarità, di una passione per l’arte che è la tara di una famiglia tutta numeri e scienza, e che, come l’ascendenza ebraica, passa ai figli dal ramo materno. A spiegarglielo sarà uno zio ex domatore di leoni diventato cinematografaro di Hollywoodland ai tempi del muto, interpretato da un’icona come Judd Hirsch. Sam, dunque, ha l’arte che gli scorre nelle vene, ed è una vocazione che potrà seguire solo scindendo, almeno in parte, i legami familiari.

Un gesto di egoismo, certo, ma impossibile da non compiere, pena l’infelicità. È quello che farà anche la madre, innamorata del candore del marito come della normalità dello “zio” Bennie (Seth Rogen), e molto anche di se stessa: figura splendida e sfaccettata, insieme amorevole ed egoista, così affascinante, così reale, da essere sfuggente (se gli Oscar non si accorgeranno di quanto è brava Michelle Williams, peggio per loro).

“L’hobby” del cinema, come continua a chiamarlo il padre sperando che il figlio rinsavisca e faccia qualcosa “di veramente utile per il prossimo”, è però una passione, più che cinefila, immediatamente ‘concreta’. Appena uscito dalla sala, la voglia di Sammy è subito di trasformare la visione passiva in un’azione pratica, di ricostruire a casa l’incidente in treno che ha visto sullo schermo. Il bambino, la madre lo sa, è ansioso, e questo è un tentativo di controllare la realtà, di dare un senso a un mondo il cui senso spesso sfugge, dove, anche quando uno si ripete che tutto andrà bene, non sempre accade. Così, man mano che si procede nella vicenda, che si passa dalla neve dell’East Coast ai deserti dell’Arizona arrivando fino all’assolata California, (“terra di giganti” ipervitaminici orribili nella realtà e buoni solo come eroi ideali da inventare su pellicola), le ombre si fanno più oscure tra i colori anni Sessanta di questa famiglia che si ama (e si odia) a modo suo.

E il cinema dimostra qui la sua duplice natura. Da una parte svela quello che l’occhio umano non vede, che la mente relega ai sogni che non si vogliono interpretare (d’altronde, come dice il piccolo Sammy quando per convincerlo a entrare in sala gli viene detto che il cinema è un sogno, “i sogni fanno paura”). E dall’altra crea una realtà alternativa, dove tutto va come deve andare, dove si possono tagliare al montaggio le parti scomode e sbagliate, gettandole nel cestino. Arma potentissima, che sconvolge chi ne è colpito, il cinema può mettere a nudo le cose per quello che sono veramente e insieme preservare e amplificare la finzione. Ed è in fondo ciò che fa Spielberg con questo home movie: raccontare la sua famiglia come se fosse un’altra, dire delle cose e nasconderne delle altre, trasformando la realtà in un gigantesco, meraviglioso, spaventoso sogno, più reale del reale.

La vita non è come un film, ma un film può essere come la vita? L’insegnamento è sempre quello di John Ford (che nel film fa un’apparizione folgorante, ma non diciamo di più), esplicitato nel finale dell’Uomo che uccise Liberty Valance. Tra verità e leggenda, nel cinema, vince la leggenda. Nel cinema di Spielberg sicuramente, e per noi va benissimo così.