Nel corso dei 210 minuti di The Irishman, sono tre i momenti in cui gli occhi azzurri di Frank Sheeran fissano diretti lo spettatore in altrettanti camera look, cari al cinema di Scorsese. Da un ospizio, luogo di fine vita; da una tavola, quella del confronto domestico, ineludibile, con una figlia; e da un’altra tavola, durante una colazione di amicizia e lavoro che è la svolta funerea della vita di Frank. Non vanno a ritroso, né in ordine cronologico, ma scandiscono comunque i tre piani temporali della storia. Il primo, quello in cui le vicende si chiudono e le porte si socchiudono, con il decrepito Frank cantastorie del secondo -il lungo viaggio in macchina che termina con quella colazione e quella svolta- ed infine il terzo, generato in flashback dal secondo, che trova Frank giovane autotrasportatore di carni e lo conduce a guidare, nel trascorrere degli anni, quella macchina, per quel viaggio, verso quella colazione.

Come Quei bravi ragazzi e Casinò, The Irishman è una storia di mafia e di uomini di mafia, come in Quei bravi ragazzi e Casinò affidata al racconto al passato del suo protagonista, rivolto apertamente alla macchina da presa. Diversamente da Quei bravi ragazzi e Casinò, e oltre quei due precedenti straordinari film -ben oltre la vibrante confessione in aula del traditore Henry Hill in Quei bravi ragazzi (“da che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster”), e nelle immediate vicinanze del laconico “e questo è quanto” che concludeva la riflessione di Ace Rothstein in Casinò - la storia di mafia di The Irishman è scarna, dimessa, spogliata di qualsiasi mitologia da malavita. Come scarno e dimesso, privo di esibizionismi ed entusiasmi, è il Frank Sheeran di De Niro.

Cosa prende il posto dell’approccio vitale e spregiudicato che fino ad oggi aveva contraddistinto i film di gangster di Scorsese? Il senso di morte, opprimente. L’odore di cenere che emana da ogni inquadratura, vestito, voce roca di barista, automobile, stretta di mano, nota musicale, cerimonia, strada e, naturalmente, omicidio. Ma anche quel senso di morte è soggetto ad una evoluzione: accolto nel primo sguardo in macchina di Frank, sorridente dall’ospizio nell’intraprendere il suo racconto; negato nel secondo, il confronto con la figlia che sbatte in faccia a lui, che si crede immortale perché uccide, le sue responsabilità di uomo e padre; riconosciuto nel terzo, cronologicamente quello di mezzo, momento chiave del film perché svolta funerea di due vite e presa d’atto non rimandabile della finitezza propria e altrui.

Quest’ultimo sentire interessa anche il cinema di Scorsese, sul cui futuro è lecito porsi nuove domande. Di nuovo, diversamente da Quei bravi ragazzi e Casinò, il film non si conclude nell’interpellazione diretta allo spettatore del protagonista, ma nel discreto ritiro della macchina da presa dalla stanza in cui Frank vive, dorme e discute con infermiere e preti, attraverso quegli stessi corridoi che ci avevano condotto alla sua carrozzella in apertura. Ciò che lo ha portato lì è la vecchiaia, nient’altro. Non l’ingresso nella mafia italiana, non il legame fraterno con l’affiliato Jimmy Hoffa, non la rottura di quel legame e nemmeno una riflessione morale e sociale su quel che ha fatto. Non c’è punizione e non c’è redenzione in The Irishman, e tanto meno nostalgia: solo l’attesa della visita di una figlia che ha emesso il suo giudizio, per la quale la porta viene lasciata aperta ed unica ragione che trattiene Frank dal portarsi la mano puntata alla tempia come il Travis di Taxi Driver.

Si è letto molto delle interpretazioni di Al Pacino, istrionico Jimmy Hoffa, e Robert De Niro, imperscrutabile Frank. Il desiderio qui è di incensare Joe Pesci, eterno “piccoletto” della gang di Scorsese, coinvolto con la forza dal regista nel progetto di The Irishman. Il suo Russell Bufalino riflessivo e calmo è la nemesi dei ruoli più famosi interpretati da Pesci per Scorsese, ed il rovescio della medaglia di Frank (lui, non Jimmy Hoffa). Quel suo “mangia, ché cresci” con cui da vecchio si rivolge a Frank in italiano, dentro al ricovero che ospita entrambi, racchiude l’ironia e il senso di impotenza di chi non ha molto altro da fare se non arrendersi al passare degli anni.