Siamo nell’America del 1981 e nonostante l’età avanzata Forrest Tucker ama il suo lavoro come fosse il primo giorno. È per lui fonte continua di felicità, non può proprio farne a meno. Peccato che l’occupazione dell’arzillo vecchietto sia rapinare banche, seppur con uno stile elegante e i modi da vero gentiluomo. Un poliziotto colpito nell’orgoglio (il nonnino svuota la cassa mentre l’ignaro piedipiatti sta facendo un versamento allo sportello accanto) decide di mettersi sulle sue tracce, portando alla luce l’incredibile storia di questo appassionato criminale.

Annunciato come l’ultimo film di Robert Redford, The Old Man & the Gun regala a questa icona del cinema made in USA l’occasione per un addio alle scene tutt’altro che scontato. Attraverso il personaggio realmente esistito di Tucker, l’old boy Redford sembra voler rivendicare le proprie scelte e il proprio passato, in primo luogo cinematografico, di libero contestatore e combattente. Una lotta affrontata con quel sorriso mai invecchiato da bravo ragazzo a stelle e strisce, un’atleta biondo e rassicurante arrivato fuori tempo massimo nell’America che aveva già smesso di credere nel mito wasp che il giovane Robert si trovava stampato sul volto. È così che da Corvo rosso non avrai il mio scalpo a La stangata, da Tutti gli uomini del presidente a I tre giorni del Condor fino al dolente Il cavaliere elettrico, i suoi personaggi hanno incarnato come pochi altri la capacità del singolo di opporsi a regole e costrizioni dettate dall’alto, rivelando dall’interno i retroscena del sogno - mai realmente concretizzato - degli happy days anni ‘50.

Non è un caso che tra le scene che mostrano le sedici evasioni del veterano Forrest compaiano anche quelle di Redford braccato dalla polizia in La caccia, cupo e contrastato capolavoro di Arthur Penn su un’America classista dove il denaro può comprare tutto e tutti. E non è un caso che il regista e sceneggiatore di The Old Man & the Gun David Lowery sia un assiduo frequentatore della più importante “creatura” di Redford, quel Sundance che ha dato sostegno e visibilità a un cinema indipendente da Hollywood, dalle sue logiche produttive e dai suoi diktat culturali. Lowery non è però un mero esecutore (basterebbe il suo precedente Storia di un fantasma a confermarlo) e si dimostra capace di sfruttare i sotto testi che “l’ultimo spettacolo” dell’icona Redford porta con sé. Sceglie per il film una credibile patina sgranata da pellicola d’epoca, che non è solo la trovata modaiola per i nostalgici degli anni ’70-‘80 ma il sintomo dalla volontà di creare un legame anche visivo con il cinema di quegli anni, con il suo linguaggio, con i suoi miti.

Alla fine il nostro indomabile bandito sembrerebbe pronto a fermarsi e cambiare vita, prendendosi cura di cavalli e fattoria insieme alla sua ultima fiamma (a cui la meravigliosa Sissy Spacek regala il suo sguardo brillante e vivace da eterna ragazzina). Ma i suoi propositi sono consapevolmente impossibili, bugie rassicuranti come quelle che Warren Oates racconta a sé stesso e all’autostoppista nella scena di Strada a doppia corsia di Monte Hellman che i due anziani innamorati vanno a vedere al cinema. Forrest Tucker non ha dubbi, nel suo viaggio non ci sono tappe obbligate ma solo la strada infinita di chi ha scelto di rispettare i propri sogni di bambino, pronto ad affrontare errori e dolore pur di non rinunciare alla propria libertà, ultima indispensabile forma di resistenza. Anche il poliziotto interpretato da Casey Affleck finisce per riconoscere nella sua preda uno spirito affine, entrambi rappresentanti di chi sceglie di agire non perché spinto dal denaro, dalle convenzioni o dall’ambizione ma solo per vera e incontenibile passione. Una gioia che ti permette di affrontare la vita senza rimpianti e con il sorriso sulle labbra, che tu sia guardia o ladro. O attore.