Prima di addentrarsi in una riflessione sull’ultimo film di Roman Polanski, sarebbe il caso di interrogarci in quanto spettatori riguardo a cosa richiedere oggi a questo immenso autore. Sono trascorsi oltre sessant’anni da Il coltello nell’acqua (ancora fra gli esordi più brillanti della storia del cinema), periodo in cui Polanski ha saputo attraversare la miriade dei generi cinematografici, districandosi tra essi, toccandoli e imprimendovi il proprio segno.

Cosa chiedere ancora a questo regista, che solamente quattro anni fa, concorrendo al Leone d’oro con L’ufficiale e la spia ribadiva il vigore e la lucidità della propria vena creativa? Fin dalle premesse appare chiaro che questo The Palace, ancora realizzato tramite un’ampia co-produzione europea, non presenta le stesse ambizioni dell’opera del 2019. La tensione morale che ammantava ogni fotogramma del film tratto dall’affaire Dreyfuss, qui si dissolve in un alone satirico imbevuto delle paure e credenze di fine secolo.  

Nella notte di passaggio tra il secondo ed il terzo millennio prende forma questo ritratto grottesco del fascino obsoleto della borghesia. E se la collocazione retrodatata e l’enfasi sui tratti farseschi dei personaggi conferisce una patina kitsch, quasi dozzinale, all’impianto estetico del film, è la corrosiva scrittura dell’autore, affiancato da un altro veterano del calibro di Jerzy Skolimowski, ad imprimere il ritmo e l’arguzia utili ad elevare il grado di complessità.

Il risultato è una commedia elaborata su più livelli, che non disdegna sferzate dirette al fine esplicito di strappare la risata grassa, ma che vuole anche fregiarsi di attacchi satirici velenosi e quanto mai attuali. Un film in cui le espressioni sbigottite di un gruppo di malavitosi russi rivolti al discorso di insediamento di Vladimir Putin (il quale promette rispetto dei diritti e delle libertà individuali) possono convivere con il rozzo stupore di chi, ritrovandosi alla toilette con un noto attore porno, ammira per la prima volta dal vivo il suo membro con tanto di felicitazioni.

Senza commettere l’errore di considerarlo alla stregua un lavoro disimpegnato, il nuovo film di Polanski si dispiega fra i registri della comicità spinta, attingendo dalle divagazioni comiche del passato (Che?, Pirati) e con un occhio alla circoscrizione spaziale del suo più recente cinema di stampo teatrale (Carnage, Venere in Pellicia). In questo rivela la sua presenza tramite la manifesta volontà di non accettare il compromesso, di impadronirsi nuovamente di un genere pesantemente codificato, troppo spesso soffocato dai cliché, e rivitalizzarlo donandogli se non un nuovo aspetto, quantomeno una ritrovata carica ilare in grado di giustificare l’esistenza del prodotto in quanto tale.

The Palace finisce dunque per essere una modesta, ma affatto scialba, cacofonia di storie in cui si muovono dei “mostri” risalenti ad un’epoca passata ma non del tutto superata. Storie dalle componenti caricaturali, strutturate su un umorismo ingenuo e finanche puerile, ma ancora sorprendentemente incisivo. Non è un attacco feroce ai vizi e alle perversioni del ceto più abbiente, come nel recente Ostlund, ma una satira bonaria nei confronti di personaggi ridicolizzati ma non detestati fino in fondo.  

È proprio questo sguardo indulgente che alleggerisce il peso delle pretese e rende la visione d’insieme armoniosa e godibile. È dunque lecito, oggi, accontentarsi di quello che può semplicemente essere recepito come un buon film di Roman Polanski, o è necessario esigere di essere ancora sopraffatti dalle visioni di questo regista? La risposta a un tale quesito è probabilmente arbitraria, ma pare evidente che, oltre sessant’anni dopo, Polanski confermi intatta la propria voglia di cinema. Fatto di fronte al quale non si può che esprimere un profondo sentimento di gratitudine.